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Con la nomina in perfetto stile Cencelli di viceministri e sottosegretari, la compagine governativa di Mario Draghi può iniziare a tutti gli effetti il suo lavoro. Risulta evidente che l’ex presidente della Bce, rispetto ai partiti della sua ampia coalizione, si porrà in una doppia veste: alcuni dossier, in primo luogo quelli economici relativi ai progetti del Next Generation Eu saranno sotto la sua egida e ai partiti sarà riservato poco più che un ruolo di rappresentanza e ascolto; altri saranno invece gestiti più direttamente dalle forze politiche, alle quali si chiede uno sforzo di cooperazione e di coordinamento con il centro.

Da questo secondo punto di vista, è da presumere, e anche da augurarsi, che la conflittualità politica si attenui notevolmente, ovvero diventi più di sostanza e meno valoriale-simbolica. Sarà un processo graduale che dovrebbe approdare al superamento, nel medio termine, di quello che è l’handicap più forte del nostro sistema politico: la reciproca delegittimazione morale fra avversari. Una delegittimazione, fra l’altro, che fa da ostacolo alla stessa lotta politica, alla rappresentanza compiuta di interessi e visioni della società contrastanti o antitetiche.

È anche prevedibile che il processo sarà graduale e che in una prima fase vecchi tic e vecchie abitudini persevereranno: l’autorevolezza del premier dovrebbe però servire come camera di compensazione di eventuali diatribe tendenzialmente destabilizzanti. Se questo obiettivo “pedagogico” nei confronti dei partiti, che è nei fatti forse prima che nelle intenzioni del governo Draghi, dovesse giungere in porto, sarebbero poi le prossime elezioni a stabilire quali forze politiche governeranno in una cornice di reciproco riconoscimento e rispetto.

Se è corretta la mia analisi/previsione, che ovviamente un qualsiasi e imprevedibile incidente di percorso (l’equilibrio è sinceramente precario) potrebbe mandare da un giorno all’altro gambe all’aria, si capisce anche perché il partito che si sia trovato più a disagio con le nuove “regole d’ingaggio” stabilite dal premier (con la regia accorta del presidente della Repubblica) sia stato quello Democratico. Ancor più dei Cinque Stelle, il cui processo di erosione interna era già in atto e l’avvento di Draghi lo ha casomai solo accelerato e reso agli occhi pubblici visibile.

Il partito di Nicola Zingaretti, l’unico che ne conservi il nome, è in effetti ancora immerso nel Novecento: è l’unico strutturato, anche sul territorio, il che male non è, e in più ha costruito, proprio come avveniva nel secolo scorso, la sua identità in contrapposizione all’altro concepito come il “non degno”,  in una parola “fascista”. Una strategia che aveva ispirato anche quel “supporto populistico” che a un certo punto ci si era creati ad hoc per arrivare più direttamente alla “gente di sinistra” e ai giovani che sentivano il partito lontano. E mi riferisco alle Sardine, della cui proposta politica l’unico elemento comprensibile era l’antisalvinismo ideologico. Insieme agli intellettuali, che come figura “impegnata” sono da considerarsi anch’essi un lascito del Novecento, è proprio il movimento di Matteo Santori il vero (e credo definitivo) sconfitto di questa nuova virata della politica italiana.

La domanda che sorge spontanea a questo punto è se maturerà un’area di centro tendenzialmente maggioritaria, un partito “nazionale” à la Macron per intenderci, oppure se la dialettica resterà a due, fra una destra e una sinistra, come è stata nel corso della “Seconda Repubblica” fino al 2013. Credo che la prima soluzione, a cui sembra stia lavorando Matteo Renzi, sia improbabile, allo stato dei fatti: sia perché è ora difficile che passi una riforma elettorale proporzionale, del tipo di quella a cui si era aggrappato Giuseppe Conte nel tentativo di salvataggio del suo governo, sia perché con tutta probabilità la “conversione al centro” (centrodestra e non destra-centro) della Lega risulterà irreversibile.

Un po’ con il suo attivismo, un po’ anche grazie alla ricompensa che ha avuto in termini di sottosegretariati, Matteo Salvini dovrebbe infatti scongiurare ogni tendenza centripeta all’interno del proprio partito. Che conserverà certo, probabilmente, la sua assertività, ma in un’ottica produttivistica e tendenzialmente liberal-liberistica (e si spera anche garantista) che di fatto la porterà ad assumere i caratteri di una nuova Forza Italia. Partito di Berlusconi che a quel punto probabilmente si spaccherà fra una destra e una sinistra entrambe liberal-produttivistiche e con gli stessi ceti sociali di riferimento (e cioè tutti quelli in senso lato borghesi). Ove il discrimine sarà culturale: più identitaria la prima, più dirittistica la seconda. A quel punto, Matteo Renzi potrebbe essere tentato di mettere fine alla sua creatura e riconquistare un ruolo in un Pd meno socialisteggiante e più riformista (secondo l’originario progetto).

Poiché in ogni caso, se tutto va per il verso giusto, ci si incamminerà verso una chiarificazione degli obiettivi di fondo delle forze politiche, e quindi anche verso una loro parziale scomposizione-ricomposizione, è indubbio che Draghi si porrebbe di fatto come “levatrice” della “nuova Italia” anche dal non inessenziale angolo prospettico della rigenerazione del sistema politico.

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Adesso che la composizione del governo Draghi è definitiva, i partiti devono puntare a un conflitto meno valoriale-simbolico. Ma la domanda che sorge spontanea a questo punto è se maturerà un’area di centro tendenzialmente maggioritaria, un partito “nazionale” à la Macron per intenderci, oppure se la dialettica resterà a due, fra una destra e una sinistra, come è stata nel corso della “Seconda Repubblica” fino al 2013. La bussola di Corrado Ocone

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