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La legge 185/90 sul controllo delle esportazioni militari da molti anni mostra i segni del tempo. Pensata durante la Guerra fredda, non è mai stata seriamente aggiornata, nonostante la fine del mondo bipolare, il processo di integrazione europeo, l’arrivo di nuove potenze mondiali e regionali, lo sviluppo tecnologico e le sinergie fra settore militare e civile, la concentrazione industriale e la nascita di imprese transnazionali, l’arrivo di due nuove dimensioni del settore della difesa (spazio e cyber).

Pensare di regolamentare l’interscambio di equipaggiamenti militari con vecchie regole è come provare a regolamentare il traffico aereo con le norme e le procedure in vigore quando c’erano solo gli aerei a elica. Ma, avendo trasformato questa legge in un tabù e avendo ostracizzato ogni tentativo di adeguamento, l’impianto normativo è rimasto in gran parte lo stesso.

I famosi e troppo spesso vituperati “vincoli esterni” europei ci hanno, però, costretto ad introdurre alcune correzioni: nel 2003 per recepire gli impegni assunti con la firma dell’Accordo Quadro del 2000 volto a favorire la concentrazione dell’industria della difesa fra i sei maggiori Paesi europei (seppure con un fatale ritardo di tre anni che ne ha svuotato il significato) e, di nuovo, nel 2012 per recepire la Direttiva europea sui trasferimenti intra-comunitari del 2009. Il risultato è stato, ovviamente, limitato perché si sono inserite in un vecchio motore alcune parti nuove che non possono operare con efficienza in quanto limitate dalle altre. E non si è avuto nemmeno il buon senso di prevedere la possibile applicazione delle nuove procedure un po’ più flessibili oltre che agli Stati membri dell’Ue, anche ai Paesi amici e alleati esterni, col risultato che ora abbiamo difficoltà a gestire la collaborazione col Regno Unito.

In realtà, un importante stravolgimento della legge era già avvenuto, nella disattenzione generale, appena tre anni dopo la sua approvazione. Nel 1993, infatti, sull’altare della semplificazione dell’attività del governo, era stato cancellato uno dei suoi tasselli fondamentali, il Comitato interministeriale per gli scambi di materiali di armamento per la difesa (Cisd), e le sue competenze erano poi state attribuite al solo ministero degli Affari esteri. Una volta tanto che l’Italia si era portata avanti riconoscendo il carattere interministeriale della politica esportativa, si è subito fatto un passo indietro, relegandola alla responsabilità di un solo dicastero.

Governo e Parlamento avrebbero, però, dovuto ricordare che nell’impostazione della normativa originale si era puntato a un sistema “equilibrato” di responsabilità, distribuite fra diversi dicasteri (Esteri, Interno, Finanze, Tesoro, Difesa, Industria) che dovevano trovare proprio nel Cisd il punto di sintesi politica, con il coinvolgimento (forse eccessivo) dello stesso presidente del Consiglio. A supporto del suo ruolo veniva istituito un apposito ufficio che doveva anche fare da segreteria al Cisd. I suoi compiti erano così indicati: “in attuazione delle linee di politica estera e di difesa dello Stato, valutata l’esigenza dello sviluppo tecnologico e industriale connesso alla politica di difesa e di produzione degli armamenti, il Cisd formula gli indirizzi generali per le politiche di scambio nel settore della difesa e detta direttive d’ordine generale per l’esportazione, l’importazione e il transito dei materiali di armamento e sovrintende, nei casi previsti dalla presente legge, all’attività degli organi preposti all’applicazione della legge stessa”. E successivamente: “Spetta altresì al Cisd la individuazione dei Paesi per i quali debba farsi luogo ai divieti di cui all’articolo 1, comma 6”.

Il legislatore aveva, quindi, stabilito che la nostra politica esportativa e ogni divieto avrebbero dovuto essere decisi collegialmente dai ministri competenti insieme al presidente del Consiglio, in modo da poter tener conto dei molteplici profili e implicazioni sul piano politico internazionale, della difesa e sicurezza, economico, finanziario, industriale e tecnologico.

Per altro, la necessità di un approccio interministeriale è stata confermata da numerose decisioni successive, soprattutto sui terreni più delicati, come il controllo degli investimenti nelle attività strategiche (dove si arriva, forse, all’eccesso della previsione di un Dpcm per qualsiasi decisione in materia di “Golden power”) o come la definizione della politica spaziale nazionale (probabilmente l’esempio più efficace ed equilibrato a livello governativo).

Anche la politica esportativa nel settore della difesa richiede e merita una sede decisionale interministeriale in modo da non fare prevalere un singolo profilo ministeriale su tutti gli altri e da trasformare ogni decisione in una scelta governativa. Si garantirebbe così che vengano considerati tutti gli aspetti e le implicazioni e tutelati gli interessi nazionali, evitando di scaricare sui dirigenti ministeriali una responsabilità che è e deve, invece, rimanere politica.

A questo fine sarebbe, quindi, opportuno che da subito il presidente del Consiglio istituisse informalmente un Tavolo interministeriale presieduto dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio con il compito di coordinare le scelte nel campo della politica esportativa, con particolare attenzione a quelle di carattere strategico, fra cui i casi più delicati, come quelli venuti recentemente alla ribalta. Data la “sensibilità” politica di tali decisioni, potrebbero essere poi riferite riservatamente al Parlamento attraverso il Copasir e, nei casi maggiori, anche al Consiglio supremo di Difesa. Nel contempo, la ricostituzione del Cisd (con le modifiche sopra proposte) potrebbe essere inserita, visto il carattere di urgenza e di ripristino dell’originaria impostazione della legge, in un qualsiasi prossimo decreto-legge di riorganizzazione del processo decisionale governativo.

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