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Passato il weekend, le cancellerie continuano a riflettere sul primo incontro del G7 annuale tenutosi venerdì e organizzato dal Regno Unito di Boris Johnson. “L’America è tornata, l’alleanza transatlantica è tornata”, ha dichiarato a pochi minuti dalla fine del vertice il presidente statunitense Joe Biden intervenendo alla Munich Security Conference assieme alla cancelliera tedesca Angela Merkel e al presidente Emmanuel Macron.

Pur evitando riferimento espliciti all’accordo sugli investimenti raggiunto tra Unione europea e Cina a fine dicembre e al gasdotto russo Nord Stream 2 per non palesare i punti di frizione con le controparti europee già al primo incontro pubblico, il nuovo inquilino della Casa Bianca ha messo nel mirino la Cina (“dobbiamo prepararci insieme a una competizione strategica a lungo termine con la Cina”) e la Russia (“cerca di indebolire il progetto europeo e la nostra alleanza Nato”).

Sin dalla prima intervista da presidente eletto (rilasciata al New York Times) Biden aveva dichiarato: “La migliore strategia sulla Cina, penso, sia quella che mette assieme tutti i nostri alleati — o almeno quelli che lo erano — sulla stessa lunghezza d’onda”. In Europa e in Asia gli alleati chiave per “sviluppare una strategica coerente”. Sarà “una delle priorità per me nelle prime settimane della mia presidenza, cerca di riportarci sulla stessa lunghezza d’onda con i nostri alleati”. Serve un cambio di passo rispetto ai quattro anni con Donald Trump in cui i rapporti transatlantici hanno sfiorato i minimi storici con l’obiettivo di far fronte comune alle minacce che provengono da Mosca e Pechino.

Tuttavia, seppur durante la Munich Security Conference la cancelliera Merkel abbia invitato l’alleato a definire un’agenda transatlantica comune su Cina e Russia, il Vecchio continente non sembra affatto interessato a impegnarsi in quel progetto di alleanza di democrazie — tecnologica, ma non soltanto — che ha in Washington e Londra i principali sponsor.

Già a metà dicembre il governo britannico aveva annunciato la decisione di invitare al G7 l’Australia, la Corea del Nord e l’India, in qualità di “Paesi ospiti”. La nota di Downing Street faceva riferimento all’“ambizione” del primo ministro Boris Johnson “di lavorare con un gruppo di democrazie affini per promuovere interessi condivisi e affrontare sfide comuni”. Che significa, come notavamo: costruire un fronte per arginare l’offensiva — militare e non — lanciata dalla Cina in Occidente ma anche nell’Indo-Pacifico.

Alcuni giorni fa su Formiche.net evidenziavamo come, ritrovata la dimensione strategica, il Giappone sia piuttosto restio a far firmare ai tre alleati asiatici la “Carta sulle società aperte” una volta invitati a Carbis Bay, in Cornovaglia. Tokyo teme di perdere il suo status di partner preferenziale di Washington e dell’Occidente nella regione ma tenta anche di evitare un aumento dell’ostilità con la Cina.

Tuttavia, il Giappone non è da solo. Anche dalle capitali europee emerge scetticismo verso il “D-10”. Ufficialmente è l’Unione europea attraverso i suoi funzionari ad aver fatto filtrare le sue perplessità invitando ad allargare il perimetro invitando al G7 anche Paesi di altri regioni (Africa, Medio Oriente e Sud America). Ma, come spesso capita, dietro la diplomazia di Bruxelles ci sono le capitali europee. In particolare Berlino e Parigi. Che, con quelli che nel mondo anglosassone rischiano di essere percepiti come tentativi di annacquamento più che di allargamento, potrebbero avere due obiettivi. Il primo: come Tokyo, evitare un’escalation (soprattutto commerciale) con la Cina. Il secondo: indebolire la “Global Britain”, il progetto post Brexit che ha come perni la presidenza del G7 e quella della conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici Cop26.

Una partita a cui è obbligata a partecipare l’Italia. Che ha bisogno e urgenza di riconquistare il suo spazio in Europa tra Francia e Germania (forte della leadership di Mario Draghi, “uno dei leader più rispettati d’Europa”, come evidenziato a Formiche.net dal politologo Ian Bremmer). Che è Paese co-organizzatore della Cop26 assieme al Regno Unito. Ma i cui settori strategici sono anche finiti nel mirino dei capitali cinesi (e pure russi).

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