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Negli ultimi giorni funzionari diplomatici iraniani e qatarini si sono incontrati a Doha per parlare del Jcpoa, l’accordo sul nucleare del 2015. L’Iran dovrebbe (vorrebbe?) tornare a rispettarne tutti i comma per poter così beneficiare dell’abolizione delle sanzioni statunitensi e riqualificare la propria economia. Il Qatar intende lavorare per la mediazione (lo ha annunciato insieme all’Oman). Il piccolo emirato ha tutto da guadagnarci: nel rapporto con gli Stati Uniti; nel creare una stabilità più ampia nella regione dopo la riconciliazione col resto del Golfo; nel proteggere gli interessi geo-economici del campo gasifero più grande del mondo che condivide con la Repubblica islamica. C’è attività attorno al dossier.

Nei giorni scorsi il presidente del parlamento iraniano ha fatto arrivare a Mosca — brevi manu — una lettera con cui la Guida suprema, Ali Khamenei, ha chiesto a Vladimir Putin di partecipare attivamente alle evoluzioni, perché Teheran vuole sponde per non finire vittima dei “giochi della Casa Bianca”. Una nota importante per spiegare certe dinamiche interne all’Iran che gravano sul tema Jcpoa: il viaggio moscovita e la lettera hanno fatto piuttosto discutere, perché il presidente del parlamento, Mohammad Bagher Ghalibaf, ha cercato di usarlo per elevare il suo status politico. All’inizio doveva essere lui a consegnare la lettera a Putin in persona, ma gli stringenti protocolli Covid che proteggono il russo glielo hanno impedito. Allora è andato il suo portavoce a darla all’omologo della Duma, ma i parlamentari collegati a Ghalibaf hanno raccontato che il messaggio era stato consegnato a un consigliere del Cremlino. Ghalibaf è un conservatore-pragmatico e piuttosto critico del governo pragmatico-riformista attuale, ha ambizioni presidenziali, E ha provato a usare la questione della lettera per lanciarsi nella scena elettorale che si giocherà a giugno.

Il punto è questo: chi muove il primo passo? Nel 2018 gli Stati Uniti sono usciti unilateralmente dal Jcpoa, da lì in poi gli iraniani hanno iniziato una serie di violazioni controllate (secondo l’articolo 37 dell’accordo). Sono violazioni che li mantengono tecnicamente all’interno dell’intesa pur non rispettandone de facto alcune limitazioni. In questa guerra di nervi negoziale chi cede prima conta per il futuro delle relazioni e per gli obiettivi.

Più volte in queste settimane gli Stati Uniti hanno detto che non accettano mediazioni: prima Teheran dovrà interrompere le violazioni, poi Washington rientrerà nel trattato. Ma la Repubblica islamica si appresta a compiere un ulteriore, importante passo in allontanamento quando la prossima settimana il governo accoglierà la richiesta parlamentare di non far più entrare i tecnici dell’agenzia atomica dell’Onu per compiere ispezioni a sorpresa negli impianti (alla IAEA è già stato comunicato il divieto).

Quello che potrebbe succedere dopo il 23 febbraio – data in cui finirà l’applicazione del protocollo aggiuntivo sulle ispezioni – è dettato anche dalle politiche interne a Teheran in vista delle elezioni presidenziali di giugno, spiega Abdolrasool Divsallar, co-head del Regional Secuirty Inititative del Middle East Directions Programme struttura integrata nello European University Institute.

“È una questione di foreign policy legacy per il presidente Hassan Rouhani, che non può uscire dal solco del dialogo, ma d’altronde non può nemmeno non recepire quello che ha deciso il parlamento”, dice Divsallar a Formiche.net.

Un elemento centrale per comprendere quanto succederà riguarda i termini con cui verrà imposta quella sospensione alle visite degli ispettori, che potrebbero essere comunque informati con report periodici di quello che il comparto nucleare iraniano sta facendo. Un modo per non far del tutto uscire fuori l’Iran dall’elemento – i controlli – che finora ha rassicurato i paesi europei sulle buone intenzioni di Teheran, come ricordato su queste colonne da Aniseh Bassiri Tabrizi (Rusi).

Rouhani ripete da tempo che “non c’è e non ci sarà spazio per le armi di distruzione di massa, comprese le armi nucleari” in Iran, secondo una prerogativa ideologica-teocratica della Repubblica islamica. Adesso sembra anche un modo per proteggere il Jcpoa e il dialogo dagli attacchi politici interni. I conservatori, soprattutto gli hardliners, raccontano la titubanza dell’amministrazione Biden come una forma di inaffidabilità e cattive intenzioni da parte degli Stati Uniti.

“L’amministrazione Biden si è appena insediata. Nonostante l’interessamento, non mi pare che l’Iran sia in cima alle priorità degli Stati Uniti.Di contro, il presidente Rouhani ha interesse a risolvere il dossier nucleare nel minor tempo possibile. Questa differenza nelle priorità crea ulteriori problemi: per Teheran, inoltre, la strada è complicata dalle elezioni presidenziali e dalla competizione interna. Il tutto produce uno stallo, una dinamica che è contraria agli interessi di sicurezza europei”, aggiunge Divsallar.

Secondo l’esperto, come detto anche dal ministro degli Esteri Javad Zarif (la mente iraniana dietro al Jcpoa), la questione delle ispezioni potrebbe essere gestita attraverso meccanismi informali in grado di mantenere tutto il dossier ancorato alla ricerca di dialogo. Questo potrebbe creare spazio per colloqui backchannel e dunque non formali dopo il 23 febbraio: contatti che potrebbero anche essere più proficui perché non esposti a mosse pubbliche dettate dalle agende interne di Usa e Iran.

 

Iran-Usa, perché il dialogo rischia lo stallo

L’agenda interna a Teheran, dettata dalle elezioni presidenziali di giugno, è differente da quella dell’amministrazione Biden e questo complica tempi e dinamiche per il rientro nei comma del Jcpoa e produce uno stallo, spiega Divsallar (MEDirections) a Formiche.net

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