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Lo spoglio è ancora in corso per il quarto voto israeliano in due anni, ma i risultati parziali puntano decisamente verso l’ennesimo stallo. Il partito Likud di Binyamin Netanyahu si conferma il più popolare, le proiezioni gli danno 30 seggi su 120 nel Knesset, ma l’intera area di centrodestra che fa riferimento a lui al momento ne conta 59. E però anche l’area di centrosinistra ha poco da festeggiare, dato che nemmeno lì si arriva agilmente alla maggioranza (qui l’analisi di Lorenzo Zacchi per Formiche.net sui possibili scenari geopolitici).

La campagna elettorale è stata feroce, racconta Fiamma Nirenstein, editorialista del Giornale e membro del Jerusalem Center for Public Affairs, durante il live talk moderato da Gabriele Carrer, giornalista di Formiche.net. Il fronte anti Netanyahu ha puntato sul profilo morale e i processi in corso del premier, ma i risultati tangibili di Bibi – il successo della campagna vaccinale, gli Accordi di Abramo con quattro Paesi arabi, l’economia ruggente nonostante la pandemia e la sua pressione costante sull’Iran – hanno pagato alle urne.

“Netanyahu ha portato Israele al vertice della suo forza geopolitica ed economica nella storia del Paese”, ha commentato Jonathan Pacifici, presidente del Jewish Economic Forum, durante il live talk. Determinante il comparto tech, la locomotiva del Paese mediorientale, che gode di ottima salute, come testimoniano la quindicina di “unicorni” comparsi da gennaio 2021 a oggi (si tratta di startup non quotate che superano il miliardo di dollari in valutazione, a cui l’economista ha dedicato il libro Gli unicorni non prendono il Corona). Aggiungendo il risvolto economico (molto lucrativo) degli Accordi di Abramo, si delinea l’immagine di una potenza economica locale.

La mano ferma di Netanyahu al timone non gli è però valsa la maggioranza in Parlamento. Tutti i partiti dal centro alla destra ultraortodossa raccolgono 72 seggi, ma molti paletti che hanno messo i partiti sono relativi proprio a Bibi, personalità divisiva, e lo stesso vale per la sinistra. Nessuno sblocco se rimangono i veti incrociati di oggi, spiega Pacifici. Esiste però un possibile ago della bilancia per formare il nuovo governo: la Lista araba unita (e moderata) guidata da Mansour Abbas che non ha mai escluso di governare con Netanyahu, a differenza dei suoi predecessori, per opposizione ideologica alle posizioni sioniste.

Per Pacifici, il risultato più probabile sono nuove elezioni – per la quinta volta dopo quattro rivelatesi inconcludenti – a meno che qualcuno tra gli esponenti non faccia un’azione coraggiosa. Un parlamentare potrebbe rientrare nei ranghi di Likud (uscendo dai partiti di Gideon Sa’ar o Benny Gantz) o chi mette i veti sui partiti religiosi potrebbe ripensarci, ma rimangono scenari improbabili.

E però, anche in mancanza di una vittoria chiara, Netanyahu ha già vinto il futuro del Paese. Gli altri contendenti, spiega Pacifici, sono la naturale evoluzione del suo pensiero, i partiti che vorrebbero rimpiazzare l’inossidabile Likud, al netto del sentimento anti-Netanyahu, ricalcano molto le sue posizioni. Il leader dell’ultradestra Naftali Bennett, per esempio, incarna lo spirito imprenditoriale che ha il contrassegno della guida quinquennale di Bibi, il suo programma elettorale si concentra sui punti di forza – tra cui l’industria tech – identificati dal premier uscente. “Paradossalmente è questo il più grande successo di Netanyahu”, commenta l’economista: il seguito che ha avuto la sua idea di Israele come stato futuro, economicamente e geopoliticamente parlando.

Il successo degli Accordi di Abramo, l’incontro di Bibi con il principe ereditario saudita Mohammad Bin Salman a Neom, la città futuristica, sono tutti elementi che concorrono a rivelare il successo del progetto per il Medioriente immaginato da Netanyahu, continua Pacifici. Un peccato, conclude, che il solco tra Europa e Israele si stia allargando: molti Paesi europei – Italia compresa – hanno votato in seno all’Onu per un embargo di armamenti su Israele, Paese capacissimo di produrre armi da solo e in via di avvicinamento con il resto del Medioriente e non con Bruxelles.

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