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La distanza tra prima e la seconda ondata di Covid-19 si misura in immagini. A marzo, gente che cantava in pieno sole dai balconi, arcobaleni disegnati su striscioni, appesi alle finestre, bandiere tricolori. Sono i fotogrammi consolatori che ci hanno fatto sentire protetti e solidali, quelli in cui tutti ci siamo riconosciuti.

Stacco.

Siamo nella seconda ondata. A Roma si sentono gli elicotteri che ronzano in cielo, sui telegiornali passano le immagini delle manifestazioni di protesta: petardi, bombe carta e polizia in assetto anti-sommossa: è notte e come ha scritto Massimo Recalcati, dobbiamo elaborare il lutto della guarigione che pensavamo di aver raggiunto una volta per tutti. Un lutto che non consiste solo nel rimandare di sei mesi – o anche di un anno – il momento in cui “tutto tornerà come prima”.

Nella prima ondata ci sentivamo protetti dal governo e dallo Stato-mamma che, mentre ci consentiva di restare nelle nostre tane, avrebbe gestito il nemico-virus esterno. Nella seconda ondata ci accorgiamo che lo Stato e chi lo governa non è quell’essere onnipotente che può risolvere la questione a colpi di Dpcm, però continuiamo a pensare che dovrebbe esserlo. Così facendo manteniamo l’illusione che a noi basta stare tranquilli, a veder scorrere le immagini in tv.

Per questo facciamo a gara a trovare un nuovo nemico, colpevole, incompetente. Ormai è chiaro che tutti ci siamo fatti trovare impreparati. C’è di mezzo il governo, ma ci siamo di mezzo anche noi, che psichicamente eravamo già convinti di aver vinto la partita e sbaragliato l’avversario quando invece eravamo solo al girone d’andata.

Capita puntualmente in ogni crisi profonda che costringe a un cambiamento catastrofico: si spera sempre in un ritorno al punto di partenza, in una restitutio ad integrum. Perché la mente all’inizio non ce la fa a immaginare la trasformazione. Invece, anche se “sarà andato tutto bene”, saremo comunque diversi.

Modificati dagli adattamenti evolutivi che avremo messo in gioco. Alla prima ondata abbiamo avuto la sensazione di attraversare un tunnel e ci siamo tenuti la mano a vicenda. Ora ci sembra di sprofondare nelle sabbie mobili e questo ci fa rabbia. Ma è proprio in questo momento che non possiamo dimenticare di usare la nostra capacità di curare e di ripararci l’un l’altro.

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