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Nella notte irachena tra lunedì e martedì sono circolate informazioni a proposito di un attacco aereo a Jurf Al Sakhar, meno di settanta chilometri a sud di Baghdad. I racconti dei testimoni che hanno animato per alcune ore i social network parlano di alcune forti esplosioni, e ci sono state due generi di congetture: o un airstrike israeliano oppure americano. Sulla seconda ipotesi ha messo una pietra momentanea Jennifer Griffin, che per Fox News segue le questioni di National Security: “Un alto funzionario della Difesa statunitense mi ha detto che stasera non ci sono attacchi aerei statunitensi vicino a Baghdad, nonostante i vari tweet dalla regione”, ha scritto su Twitter. Successivamente la posizione è stata confermata dal portavoce del CentCom.

Sulla prima, ossia il raid israeliano, c’è – come accade da otto anni – una patina di mistero: gli israeliani conducono attacchi in Siria per ragioni di sicurezza nazionale, in quanto ritengono che i Pasdaran stiano trasferendo armamenti pesanti ai gruppi regionali affiliati e pensano che prima o poi quelle armi saranno rivolte contro lo stato ebraico. Ma rarissimo che ne parlino.

Dall’agosto del 2019 si sa – per ammissione minima del premier Benjamin Netanyahu – che le attività israeliane si sono estese anche all’Iraq, dove si trova un crogiolo di milizie che l’Iran cerca di controllare, armandole e finanziandole, e martellandole con la propaganda ideologica. Quello colpito nell’area di Jurf Al Sakhar per esempio potrebbe essere un deposito  di armi della Kataib Hezbollah, un partito/milizia pensato su impronta dei cugini libanesi che sono tecnicamente ancora in guerra con lo stato ebraico, cresciuto di importanza durante gli anni in cui – per conto iraniano – ha aiutato a puntellare il regime assadista in Siria, per molto tempo uno dei gruppi velenosi che disseminavano di trappole esplosive le strade dell’Iraq occupata da americani e occidentali durante gli anni della Guerra. La Kataib Hezbollah aveva un leader noto con il kunya di Abu Mahdi al-Muhandis, diventato poi comandante delle Forze di mobilitazione popolare create in Iraq (dall’Iran) per combattere l’Is, che è stato ucciso con il suo eterodirettore, il generale dei Pasdaran Qassem Soleimani nel raid americano del 3 gennaio 2020 a Baghdad.

Diventa piuttosto chiaro come le due congetture di sopra – attacco israeliano, attacco americano – si sovrappongano. Entrambi hanno colpito i proxy iraniani in Iraq e Siria, e spesso le azioni dell’uno sono frutto di informazioni di intelligence passate dall’altro. Non parliamo di operazioni numerate, ma di oltre cinquecento obiettivi colpiti solo nel 2020, per (rara) diretta ammissione del capo di stato maggiore israeliano a dicembre. Qualche giorno fa Israele ha lanciato un attacco aereo nella regione di Deir Ezzor, nell’est petrolifero siriano, colpendo diversi depositi di armamenti.

È stata un’operazione pesante e vistosa, che ha seguito un’altra attività vistosa: l’incontro del segretario di Stato americano uscente, Mike Pompeo, e del capo del Mossad, Yossi Cohen, in un ristorante italiano di Washington – il Café Milano – dove si va per essere visti. È il terzo articolo in cui Formiche.net cita questo appuntamento (qui e qui gli altri due, ndr), perché quel faccia a faccia potrebbe essere stato un punto di partenza, pubblico, di un allineamento che fra qualche anno potrebbe portare entrambi i protagonisti alla guida dei rispettivi paesi.

Ma anche perché segna una potenziale continuità. I media americani per esempio sostengono che Cohen e Pompeo abbiano parlato, prima della cena, del raid di Deir Ezzor, e Haaretz fa notare come questi attacchi praticamente routinari si siano intensificati nelle ultime settimane e suppone che il motivo sia l’uscita dell’amministrazione Trump e l’ingresso – domani 20 gennaio – di Joe Biden alla Casa Bianca.

Dato che in realtà i raid siriani di Israele sono iniziati nel 2013, e in tre anni successivi di amministrazione democratica guidata da Barack Obama – il motore dell’accordo con l’Iran per il nucleare che ha scosso Tel Aviv – certe azioni non sono mai state impedite, più che un’accelerazione quella iraniana è una dedica con messaggio: noi continueremo a seguire i nostri interessi come abbiamo sempre fatto, sembrano dire. Però l’analisi israeliana è interessante perché considera che il momento non è proficuo tanto per la copertura di Washington, quanto perché adesso Teheran ha le mani legate per reagire, visto che vuole sfruttare l’effetto Biden ed evitare scatti scoordinati per tornare al dialogo con gli Usa.

(Foto: Wikipedia, un F16 e un F35 israeliani)

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