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“Dichiaro il mio desiderio sincero di cedere le mie responsabilità al prossimo esecutivo non più tardi della fine di ottobre”, equilibrato e distaccato come al solito, il premier libico Fayez Serraj ha annunciato l‘intenzione di dimettersi – come anticipato dalla Bloomberg due giorni fa. “Spero che la commissione per il dialogo finisca il suo lavoro e scelga un consiglio presidenziale e un primo ministro”, ha aggiunto parlando in diretta televisiva. Il leader del Governo di accordo nazionale, Gna, costruito dall’Onu sulla base degli accordi di Skhirat del 2015, lascia spazio al processo di stabilizzazione in corso.

Il mese prossimo, a Ginevra, si terranno altri colloqui sul futuro libico: un percorso iniziato proprio su spinta di Serraj e tramite il contatto con Aguila Saleh, presidente della Camera dei Rappresentanti (HoR), il parlamento rifugiato a Tobruk che l’Onu riconosce come legittimo in quanto ultima assise eletta dal popolo. Le dimissioni di Serraj – legate anche a questioni di natura personale – sono un passaggio che rientra nell’attuale fase, delicatissima perché i ribelli dell’Est guidati dal capo miliziano Khalifa Haftar non hanno mollato l’ambizione di prendere il paese con le armi.

Dietro si apre uno scenario complesso: in parte l’annuncio di Serraj è tattico, utile a dimostrare che sebbene l’architetto di Tripoli scelto dall’Onu sia stato sempre riluttante nel procedere sul proprio ruolo, attualmente (come cinque anni fa) le alternative sono poche. E quindi possibile anche che tutti rientri a fine mese per essere eventualmente posticipato. Quieto e ordinato, Serraj ha sempre cercato di mostrare controllo nelle fasi di caos; la sua forza, e contemporaneamente la sua debolezza, è sempre stata l’essere avulso dal contesto politico (e quindi tribale, e quindi miliziano) libico. Ha tenuto in piedi il salvabile; ha resistito (grazie all’appoggio turco) respingendo l’attacco a Tripoli di Haftar; ha tenuto testa a chi lo avrebbe voluto fuori dai giochi da diverso tempo.

Nei giorni scorsi, persone vicine Serraj hanno fatto trapelare la notizia che lui fosse interessato a lasciare l’incarico per andare a Londra (a fare l’ambasciatore?), dove si trova la sua famiglia. Il premier è sicuramente provato dalla guerra civile e dai successivi scontri di potere che ci sono stati negli ultimi tempi. Al di là della successione tecnica, chi potrebbe succedergli è Ahmed Maiteeg, vicepresidente del Consiglio Presidenziale e vice di Serraj, potenziale figura di transizione individuata per il nuovo corso politico. Maiteeg è rientrato da pochissimo in Libia dopo un tour in Turchia e una visita lampo in Russia. E Ankara e Mosca, da Tripolitania e Cirenaica, stanno raggiungendo la quadra su una soluzione che possa allungare il fermo delle armi e implementare la stabilizzazione.

“Serraj ha fatto un annuncio che risponde a una logica davvero individualistica”, spiega a Formiche.net Jalel Harchaoui del Clingendael Institute olandese, uno dei principali esperti di Libia. Il problema, aggiunge, è anche per la Turchia, che “può far fina che sia tutto a posto, ma non è tutto a posto: perché l’annuncio di Serraj obbedisce alla logica di Serraj e non conforta Ankara, che in Tripolitania sembra a questo punto non avere il cento per cento del controllo”. Quello a cui ha fatto riferimento Serraj, quasi giustificandosi per aver mollato, è un percorso ambizioso, secondo un’agenda dell’Onu che riguarda la riforma del Consiglio presidenziale – l’organo onusiano che sta sopra all’esecutivo – ma anche un nuovo parlamento eletto, e poi lo sblocco delle produzioni petrolifere e la redistribuzione dei proventi su tutto il territorio, anche attraverso la riunificazione della banca centrale. Tutti passaggi che hanno sé complicazioni tecniche e che difficile si risolvano nel giro di un mese.

Un piano su cui c’è concordanza da parte di due attori esterni che supportano l’Est, Egitto e Russia (meno per gli Emirati Arabi) e un buon livello di accettazione da parte della Turchia, sebbene le modifiche potrebbero portare nuovi equilibri, con l’entrata in gioco di figure della Cirenaica, su cui soprattutto Ankara dovrebbe costruire nuove leve di influenza. Sul percorso, e sulle dimissioni, a Tripoli non tutti sono allineati: per esempio, Mohamed Ammari Zayd, uno dei membri del consiglio ha dichiarato che “la legittimità su cui ci basiamo (ossia su cui si basa il Consiglio presidenziale, ndr) non è legata a nessuno, indipendentemente dalla sua posizione”, riferendosi chiaramente alla decisione presa da Serraj e sottolineando intrinsecamente che si tratterebbe di una scelta personale (dunque non vincolante per il resto del Consiglio?).

Cosa dopo Serraj, dunque? “Uno dei problemi principali riguarda la possibilità che in questo momento si apra una competizione interna tra individualità. Oltretutto ci sono figure che potrebbero polarizzare la situazione in Tripolitania, per esempio pensiamo a un primo ministro di Misurata: creerebbe una questione di equilibrio col nord-ovest (di Tripoli, ndr), un blocco molto importante del paese dove già si pensa che i misuratini abbiano adesso troppo potere”. Questa polarizzazione, secondo l’esperto del think tank olandese, è stata finora evitata dal fatto che Serraj era “una figura tranquilla e non troppo ambiziosa, sebbene piuttosto carismatica”.

Il rischio che altra benzina si versi sul fuoco è concreto. E poi? “Su tutto inoltre c’è poi il peso delle elezioni generali (che l’Onu vorrebbe organizzare e su cui c’è una parte di consenso interno, ndr). Mancano mesi alle nuove elezioni, il nuovo governo e il suo premier riusciranno a gestire questo periodo? È una cosa molto delicata”, spiega Harchaoui. Chiaramente non è detto che il sistema post-Serraj funzioni semplicemente come un’entità tecnocratica utile a dimostrare che una struttura è rimasta in piedi fino alle elezioni – come vorrebbe che fosse l’Onu – ma potrebbe avere delle ambizioni ulteriori e complicare la già sensibile fase.

Libia, l'incognita del dopo-Serraj spiegata da Harchaoui

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