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Cosa c’è davvero dietro la cooperazione fra Turchia, Azerbaigian e Pakistan che si sono accordate ufficialmente per combattere l’islamofobia, la discriminazione e la persecuzione delle minoranze musulmane? La preoccupazione diffusa dai tre Paesi per le gravi violazioni dei diritti umani e crimini contro l’umanità commessi contro le comunità musulmane in varie parti del mondo cela il progetto di fare muro contro le conseguenze degli accordi di Abraham, che toccano anche il Marocco in chiave geopolitica e il Mediterraneo in chiave energetica?

DIALOGO

I ministri degli Esteri dei tre Paesi hanno annunciato la creazione di una piattaforma comune per rafforzare il dialogo trilaterale. Da Islamabad, in sostanza, prende avvio una fase di collaborazione articolata per combattere le persecuzione delle minoranze musulmane, in particolare nei forum regionali e internazionali. Accanto a ciò è stato discusso il tema legato alle conseguenze economiche dovute alla pandemia: a questo proposito hanno concordato uno scambio costante di informazioni, al fine di lavorare ad una maggiore solidarietà internazionale.

OLTRE L’ACCORDO?

Oltre quell’accordo c’è dell’altro. In primis l’idea di costruire una soluzione sostenibile e reciprocamente accettabile della questione di Cipro, direttamente connessa alla partita per il gas aperta nell’Egeo e nel Mediterraneo orientale sulla base del diritto internazionale. Un annuncio che però si discosta dalla nota avversione di Erdogan alla Convenzione di Montego Bay e al Trattato di Lisbona, che ha delimitato dopo il primo conflitto mondiale le acque internazionali tra Turchia e Grecia.

Ma non è tutto, perché Turchia, Azerbaigian e Pakistan mirano ufficialmente a porre fine al conflitto tra Armenia e Azerbaigian, investendo su una generica normalizzazione. Come? Partendo, dicono in una nota ufficiale, dalla sovranità e dall’integrità territoriale dei confini internazionalmente riconosciuti all’Azerbaigian in conformità con le risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Parole che però non tengono conto di “come” Ankara abbia spinto sul Nagorno Karabakh anche con l’utilizzo dei suoi droni, gli stessi che hanno fatto la differenza in Libia.

STRATEGIE

Su questo si segnala la strategia messa a punto dal presidente russo, Vladimir Putin, e da Erdogan al fine di elaborare una sorta di Centro bilaterale per il monitoraggio dell’attuazione del cessate il fuoco. Come ha riferito il Cremlino l’obiettivo è “garantire il rispetto del cessate del fuoco e tutte le attività militari nell’area del conflitto”. Un passo formale che segue l’intesa trilaterale raggiunta da Russia, Armenia e Azerbaigian il 9 novembre scorso. Secondo il presidente azero Ilham Aliyev il centro turco-russo sarà ad Aghdam, un distretto del Nagorno-Karabakh che è stato consegnato all’esercito azero il 20 novembre scorso come condizione della tregua.

La tesi pubblicamente sostenuta da Erdogan è che la Turchia lavora per creare quell’humus utile ad azeri e armeni per vivere insieme nel Nagorno-Karabakh. Lo scorso novembre, va ricordato, il parlamento turco aveva approvato la mozione per lo spiegamento di truppe in Nagorno-Karabakh per un anno.

ABRAHAM

La rinnovata partnership tra Turchia, Azerbaigian e Pakistan va però letta in filigrana, senza evitare di analizzare le ripercussioni degli accordi di Abraham. Erdogan si è persino spinto a dire la Turchia è favorevole al miglioramento delle relazioni diplomatiche con Israele, “ma la sua politica palestinese è inaccettabile per Ankara”, entrando in quel solco di critiche agli accordi di Abraham già tracciato da Hamas. Appare evidente che la mossa israeliana di aver ripristinato con successo le relazioni diplomatiche tra il Bahrain e gli Emirati Arabi Uniti (come parte dell’accordo Abraham mediato dagli Stati Uniti) sia uno dei principali elementi che sta determinando reazioni a catena nell’intero quadrante mediorientale.

twitter@FDepalo

Cosa c'è dietro la cooperazione fra Turchia, Azerbaigian e Pakistan

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