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Alla fine tutti gli sforzi, o quasi,  fatti dal Pd e dai Cinque Stelle per giungere ad un candidato unico in grado di battere quelllo di centrodestra nelle regioni in cui si vota il 20 e il 21 settembre sono andati a vuoto. Tranne che in Liguria, ove il partito di Zingaretti farà drenare i suoi voti, in vertità senza molta convinzione, sul giornalista Ferruccio Sansa, le forze che sorreggono il governo non hanno raggiunto un accordo e correranno autonomamente.

Come è noto, proprio a ridosso di Ferragosto, su Rousseau era stato tolto anche l’impaccio formale che ancora impediva ai grillini di allearsi con gli altri partiti. Tutto inutile. Nonostante che negli ultimi giorni Zingaretti e Di Maio abbiano parlato di “alleanze strategiche” lasciando intravedere grandiosi disegni comuni per il futuro; nonostante che Grillo spinga in questa direzione almeno dal momento della nascita dell’esecutivo giallorosso; nonostante che anche Conte avesse provato precedentemente a facilitare un’intesa spezzando una lancia a favore dell’alleanza pur non esponendosi troppo per ovvi motivi di tenuta del suo governo.

In questo contesto, è comprensibile che il presidente del Consiglio sottolinei in continuazione  che il voto nelle regionali vada disgiunto dalle vicende e degli equilibri nazionali. Che però alla fine non abbia riscontri su di essi, in un senso o nell’altro, è irrealistico pensarlo. Anche se altrettanto irrealistico è credere che, in caso di una schiacciante vittoria della destra, il governo possa andare a casa. I tempi in cui Walter Veltroni, sconfitto in Sardegna, rassegnava le dimissioni da premier a Roma sono lontani. E il gioco politico nazionale è oggi viziato dal fattore S (potete leggere “sovranismo” o Salvini, è lo stesso), e quindi dal ruolo “salvifico” che questo governo si è dato o che gli è stato dato a tutela dell’asse portante della Costituzione non scritta che sovrasta in Italia quella formale: cioè l’adesione indiscutibile all’Unione Europea, indipendentemente dagli assetti che essa si dà e dai rapporti di forza che in essa vigono.

Un dogma che ha il custode nel Presidente della Repubblica, in quello che c’è e in quello che per il deep state dovrà di necessità esserci dopo lo scadere del mandato di Mattarella. Calcare ancor più l’asimmetria evidente fra volontà popolare e equilibri nazionali, ritrovandosi ad esempio la sera del 21 con ben 16 regioni italiane in mano all’opposizione, metterebbe ulteriormente in contraddizione con se stesso il nostro sistema politico, ingigantendo il deficit di democrazia che attualmente lo contraddistingue. Senza contare gli effetti a livello di immagine che potrebbe avere una sconfitta di Emiliano in quella Puglia che, non solo è governata da un tipico esponente del filone populistico-giustizialista che fa da cemento all’entente cordiale che si vorrebbe far evolvere a sinistra, ma è anche la patria di Conte e di Casalino. Ipotesi null’altro che inverosimile considerata la presenza in corsa anche di un candidato di Italia Viva, perfidamente messo lì da Renzi per affossare due suoi diversi e storici nemici: Emiliano e Conte, appunto. L’impressione è che alla fine di questa storia a perdere credibilità sarà proprio il Pd, soprattutto se, alleati o no, i Cinque Stelle, pur in caduta libera, finiranno per trasformarlo agli occhi dei più nel partito che per il potere è disposto a sacrificare ogni ideale, contraddirsi e a buttar giù ogni tipo di minestra.

Ocone spiega perché la destra vincerà le regionali ma il governo reggerà

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