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In questi giorni si è fatto un gran parlare degli Stati Uniti. Era ovvio. Con la vittoria di Biden ed Harris, tutti abbiamo tirato un sospiro di sollievo. Una riconferma del presidente uscente avrebbe potuto segnare un ulteriore allontanamento degli Usa dall’Europa, con conseguenze ancora più gravi di quelle viste sinora. Avrebbe accelerato anche il declino degli Usa, rispetto a quanto non sia già avvenuto. Ma non voglio parlare di questo.

Di “consigli” su cosa fare Biden ne ricevuto già abbastanza. Sa bene cosa serve, come ha dimostrato durante la campagna elettorale e nelle prime dichiarazioni seguite alla sua vittoria. Ha un paese letteralmente spaccato in due come non mai, con l’ex-presidente uscente che continua ad aizzare le persone come un tribuno o un presentatore televisivo. Usa la spocchia e il corpo, più che la testa, per comunicare.

Una tattica per colpire l’attenzione degli elettori, in voga anche in altri paesi, nata in Italia negli anni 20 del secolo scorso. Ma quello che più meraviglia da parte degli europei è l’abbondanza di consigli prodigati a Biden, su cosa dovrebbe fare l’America per sé e per l’Europa. Nessun consiglio, nessuna riflessione, invece, su ciò che L’Europa dovrebbe fare per sé e per l’America! Ormai però è ora che ciò avvenga. Meglio non aspettarsi nulla dagli Usa. Piuttosto dovremmo decidere noi cosa possiamo fare insieme e cosa fare da soli, a prescindere dagli Stati Uniti. Ma quest’Europa ancora non c’è. Quella che abbiamo non è in grado di fare le cose che gli Usa ci chiedono da tempo e che noi non facciamo perché non siamo in grado o perché non vogliamo.

Un dilemma che non possiamo continuare a rinviare. Così facendo aumenterà la nostra assenza e la nostra insignificanza politica in ambito internazionale, rispetto ad un quadro mondiale in continua evoluzione, reso ancora più fluido e grave dalla pandemia. Gli Usa infatti stanno perdendo la loro leadership mondiale. Anche per loro è iniziato il declino. La crescita della Cina e il consolidamento della Via della seta, insieme alla nascita del Recep, Regional Comprehensive Economic Partnership, tra la Cina, i 12 Paesi dell’Ansean, più Giappone e Corea del Sud, il 30% del Pil mondiale, rappresentano una realtà che non si può più sottovalutare o ignorare da parte dell’Ue, come fosse un problema solo degli Stati Uniti.

Si tratta invece di un problema economico e strategico di grande rilievo, che va affrontato insieme. Come va affrontato insieme la questione di “un nuovo diritto internazionale” in grado di porre delle regole ai settori che hanno superato i confini delle nazioni, sfuggendo completamente al loro controllo giuridico, “liberi” di agire a loro piacimento. Pensiamo, ad esempio, alla finanza e alle transazioni finanziarie, al debito ed ai paradisi fiscali, alle trasformazioni digitali ed ai relativi monopoli; al controllo dei dati ed alla perdita di libertà, alle migrazioni o all’intelligenza artificiale, dove l’Europa è completamente assente, ecc.

Ma per far questo serve un’altra Europa, che non c’è. Forse bisognerà pensare ad una nuova Bretton Woods per ridare spazio anche alle regole in ambito economico e monetario, per ridisegnare e rafforzare il ruolo degli organismi internazionali su basi nuove, dove l’Europa dovrebbe presentarsi con una voce sola e con una BCE alla pari delle altre banche centrali. Ma anche questa è un’Europa (ed una Banca Centrale) che ancora non c’è.

Pensiamo ai conflitti mondiali, quelli vicini ai nostri confini, ad Est o a Sud, o sotto casa, nel Mediterraneo e in Medio Oriente, sempre più gravi. Servirebbe una capacità di bilancio autonomo per affrontare le spese necessarie per la sicurezza e la difesa. Servirebbe una maggiore capacità politica e diplomatica di intervento, che l’Ue ancora non ha, com’è stato ampiamente dimostrato per anni, ogni qualvolta se n’è presentata l’occasione.

Si tratta di interventi ed azioni che dovremmo compiere noi europei, insieme agli Usa. Ma anche questo richiede un’altra Europa, che non c’è. Pensiamo alla necessità di difendere la democrazia e costruire un nuovo modello di partecipazione dei cittadini alla vita pubblica, in difesa delle libertà e dei diritti fondamentali della persona. Ma nemmeno quest’Europa c’è. Un’Europa che, secondo i padri fondatori, doveva nascere già dopo il cataclisma della guerra. Ma l’idea abortì fin dall’inizio. In questi anni ci sono stati progressi importanti, ma troppo lenti rispetto ai bisogni.

Di fronte agli appuntamenti chiave l’Europa sembra vocata al fallimento. Appare timida, incerta, controversa e litigiosa. Ragiona più come un club di ragionieri e di commercianti, non di statisti”. Cammina molto lentamente. Striscia i piedi per terra, per paura di cadere, con la testa rivolta all’indietro, insicura, piena di affanni, di complessi e paure.

Fatica molto a diventare adulta. Ma i tempi lunghi dell’800 o del 900 sono finiti. Non esistono più. Ormai l’equilibrio e le occasioni si perdono se si va piano, non se si corre veloce. Perciò l’Europa ha bisogno di correre per non cadere, per invertire il suo declino e tornare protagonista di una nuova stagione politica e culturale, parlando con una voce unica. È la condizione per giocare “alla pari” con gli Stati Uniti, guardando avanti. Non ci resta molto tempo per farlo, se non vogliamo diventare sudditi di nuovi padroni. Le ultime decisioni hanno riacceso la speranza.

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