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Nella terza decade del ventunesimo secolo, di fronte alle sfide del cambiamento climatico, della transizione energetica e della rivoluzione digitale, sembra ormai chiaro che il panorama geopolitico sarà caratterizzato da una nuova forma di competizione: quella per dominare il settore delle “tecnologie verdi”, nella convinzione che esista una stretta complementarità tra un futuro sostenibile e il progresso tecnologico nel tracciare la nuova frontiera dello sviluppo. 

Ma, come spesso accade, ogni rivoluzione ha il suo prezzo da pagare. L’entità di quest’ultimo è stato sottolineato da uno degli ultimi rapporti della Banca mondiale, secondo la quale la transizione energetica implicherà una crescente domanda a livello mondiale per i metalli rari. “Sulla base dei trend correnti, è previsto che Cile, Perù e (potenzialmente) la Bolivia giocheranno un ruolo chiave nel rifornimento di rame e litio; il Brasile bauxite ed acciaio grezzo; mentre l’Africa meridionale e la Guinea saranno centrali nel soddisfare la crescente domanda per platino, manganese, bauxite e cromo. La Cina continuerà a giocare un ruolo crescente nella produzione e nelle stime delle riserve in quasi tutti i metalli cruciali richiesti negli scenari ad emissioni ridotte”, come riportava il sommario del rapporto. Già, Pechino è ancora in una posizione di preminenza assoluta, controllando quote di produzione che superano mediamente il 50% per i minerali rari fino ad arrivare ad un quasi totale monopolio per le terre rare. 

Ma qualcosa si sta muovendo. Se da una parte la pandemia ha indubbiamente falciato l’economia globale, dall’altro ha contribuito a dare nuovo slancio a due tendenze. In primo luogo, di fare della crisi un’opportunità. Un’occasione per i governi di rilanciare l’economia guardando al futuro. La Germania, seguendo l’idea del presidente francese Emmanuel Macron, ha fatto nuovamente scuola, con il piano della coalizione di Angela Merkel nel promuovere il settore delle auto elettriche la settimana scorsa come raccontato da Formiche.net. Non solo. Nel Regno Unito, sono i dati a parlare. Ieri, allo scoccare della mezzanotte, l’isola ha registrato, per la prima volta dalla rivoluzione industriale, due mesi consecutivi di consumi elettrici senza l’utilizzo di impianti a carbone. Un record storico e significativo in parte conseguenza del lockdown, come riferisce National Grid, multinazionale leader d’investimenti nel settore elettrico. Un risultato che conferma comunque gli sforzi britannici: il carbone contava per più del 40% nella produzione annuale di energia, secondo i dati del Drax Electric Insights. Entro il 2024 Londra punta a chiudere gli impianti a carbone e così raggiungere il target delle emissioni nette a zero entro il 2050. “Un decennio fa, soltanto il 3% dell’elettricità nazionale proveniva fa fonti solari ed eoliche”, riporta la BBC, “ora il Regno Unito conta su di una delle industrie eoliche più importanti al mondo”. Ma c’è anche il rovescio della medaglia. Come riporta Reuters, la crisi sanitaria e il tracollo economico hanno rallentato l’incipiente rivoluzione elettrica, soprattutto in Europa con un calo delle vendite nel settore automotive del 23% dopo quasi un decennio di crescita interrotta. Tuttavia, se da un lato “i cambiamenti a lungo termine per il settore dei trasporti causati dal Covid-19 sono ancora incerti”, appare evidente come “sia i governi europei che quello cinese si assicureranno, a prescindere dal numero di auto in circolazione, che la maggior parte di queste dovrà essere elettriche”. U

na contingenza favorevole che non poteva sfuggire agli addetti ai lavori. In un editoriale, Michael Bloomberg ha rimarcato come “il mercato per gli investimenti in infrastrutture pulite non è mai stato così favorevole”, con possibili ricadute positive sia sull’ambiente sia sull’occupazione. “Le decisioni che i governi faranno ora e nel corso dei mesi prossimi avranno conseguenze economiche ed ambientali decisive per le generazioni future”. Dall’altra parte dell’Atlantico, Tesla ha rilasciato un report che evidenzia uno “straordinario” incremento nella qualità dell’aria e nei tagli alle emissioni, seppur non definitive nel lungo termine. Vi è tuttavia un contesto, come riporta l’azienda americana, “per un opportunità senza precedenti di imparare da questa disruption e accelerare così l’impiego di soluzioni energetiche pulite” come parte della ripresa economica. 

Ed è per rispondere a questa crescente consapevolezza che si insinua la necessità di ovviare a quella miopia strategica che ha per lungo tempo favorito l’ascesa del Dragone nel dominio delle lunghe catene del valore di questi minerali cruciali per le tecnologie verdi. Anche in questo campo, lo scontro frontale Usa-Cina è diventato centrale. Secondo le stime di BloombergNEF, nel 2019 Pechino e Washington erano rispettivamente al primo e secondo posto per investimenti nel settore delle rinnovabili, contando metà dei 282 miliardi di dollari a livello mondiale. Pertanto, “il crescente ruolo di queste tecnologie ha ridato lustro all’importanza strategica delle terre rare come ingredienti critici”, commenta su The Diplomat Jane Nakano, senior fellow dell’Energy Security and Climate Change Program presso il Center for Strategic and International Studies di Washington. “Persistono preoccupazioni tra i policymaker americani e occidentali che una forte dipendenza economica dalla Cina per i minerali rari possa diventare una vulnerabilità che la Cina possa sfruttare in caso di un grave conflitto con l’Occidente”. 

In risposta a questo possibile scenario il dpartimento di Stato spera nel successo della sua iniziativa, l’Energy Resource Governance Initiative (Ergi). Annunciato dal segretario di Stato Mike Pompeo lo scorso 26 settembre, il piano è volto a coinvolgere partner commerciali da tutto il mondo in uno sforzo multilaterale per promuovere l’estrazione in loco dei 15 minerali necessari a incontrare la domanda esponenziale di componenti chiave nei settori dei motori elettrici e delle turbine eoliche. Hanno già aderito Paesi come il Botswana, il Perù, l’Argentina, la Repubblica Democratica del Congo, la Namibia, le Filippine e la Zambia, che si sono aggiunti a partner fondatori, Australia e Canada. “Stiamo cercando di espandere l’iniziativa al fine di coinvolgere altri governi e istituzioni governative” ha commentato Frank Fannon, vice segretario di Stato per gli affari energetici, in un’intervista riportata da Reuters. Fannon ha anche confermato una serie di conversazioni con i rappresentanti della Commissione europea circa il coinvolgimento dell’Unione nell’iniziativa. L’Europa ha da tempo avviato una sua Eu Raw Material Strategy per promuovere innovazione, ricerca e sviluppo al fine di garantire una maggiore sostenibilità e diversificazione delle supply chain, così da poter mitigare i rischi e le vulnerabilità in un settore molto ristretto e volatile come quello dei minerali. Una collaborazione più stretta con gli Usa sarebbe sicuramente un ulteriore passo per rafforzare la governance dell’industria mineraria globale in un’ottica anticinese. Anche il Giappone verrebbe incluso nell’iniziativa, il cui slancio verso le rinnovabili ha da poco registrato una notevole spinta dopo l’annuncio di Tepco Renewable Power (unità di Tokyo Electric Power Company Holdings) di un investimento tra i 9 e i 18 miliardi di dollari per sviluppare impianti di energia eolica e idro-elettriche per un totale di 6-7 gigawatts (GW) entro il 2035. 

Nonostante la crescita rallentata e i ritardi nella catena di approvvigionamento causati dalla pandemia, l’International Renewable Energy Agency (Irena) ha stimato che la capacità globale di produzione di energia rinnovabile crescerà del 6% nel 2020, mentre la riduzione dei prezzi potrebbe agevolare ulteriormente l’adozione di piani di ripresa più “verdi”. Per questo serve una strategia che possa governare tutti gli aspetti (tecnologici, sociali ed ambientali) della rivoluzione energetica in questa fase delicata. Martedì scorso Fannon ha preso parte a un workshop con l’Agenzia, nella quale sono emersi i due punti più critici: “Se decidiamo di non agire, di continuare con lo status quo, due sono gli esiti possibili. Che il mondo non riesca ad accendere ai minerali di cui ha bisogno per la transizione energetica, o che le tecnologie che utilizziamo siano macchiate dallo sfruttamento del lavoro e da investimenti predatori”. 

Un chiaro messaggio a Pechino? La speranza è quella di utilizzare gli “strumenti” a disposizione del progetto per promuovere “pratiche regolatorie e governance giuste” in un settore industriale cruciale come quello dei minerali. “Dobbiamo assicurare che lo sviluppo sia fatto responsabilmente, con il rispetto dei diritti umani, del lavoro e degli standard ambientali”. Diversificazione e accountability: sono queste le carte per sfidare la Cina nella corsa alle rinnovabili e all’estrazione dei metalli rari?

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