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Nell’attesa che firmi l’enciclica “Fratelli tutti”, Papa Francesco non si stanca di ripeterci che da una crisi non si esce come si era, se ne esce migliori o peggiori. Questa prima crisi pandemica dell’epoca globale ci impone, per uscirne migliori, alcune revisioni che riguardano nel profondo la nostra identità. Figli di un tempo che si definisce secolare, abbiamo finito con il ritenere che questo voglia dire individuale, irresponsabile. Essere secolarizzati vorrebbe così dire essere privi di vincoli, di legami sociali, di “appartenenze”. Non apparteniamo e quindi siamo pronti soltanto a cercare la strada per salvarci da soli. Tutto questo però è sintomo di una crisi, di una non appartenenza che deriva soltanto dal rifiuto di ogni identità più che da una nuova identità. Essere secolarizzati non ha nulla a che fare con tutto ciò.

Il terreno è minato, ma il mondo secolarizzato dopo secoli di successi ma anche di sopraffazioni e imposizioni ha rifiutato che la legge sia intesa come prodotto immodificabile, scritto nel nome di Dio. Una legge non positiva, che al di là di alcuni cardini indiscussi non può cambiare, ammodernarsi, seguire il senso dei tempi e i nuovi problemi  perché qualcuno ritiene di rappresentare in terra chi detiene la volontà suprema. Questo l’uomo moderno ha rifiutato. E questo è definitivamente tramontato con la fine della “cristianità”. La Chiesa non è più un giudice eterno, che ponendosi al di sopra e al di là della storia dispone dei diritti di Dio in terra per farne rispettare la volontà, da tutti. Non è più così.

L’offerta di fratellanza di Francesco non chiede di tornare indietro, ma ci chiede di appartenere alla nostra società quali fratelli, diversi e proprio per questo uguali nelle nostre diverse sensibilità. Siamo “fratelli tutti”, nessuno è più fratello di un altro. Ma dirsi fratelli vuol dire riconoscersi figli. Se siamo fratelli siamo figli della stesso padre. Questo sarà accettabile a chiunque non pretenda di essere Dio.

Dunque i paletti “indiscussi” (non uccidere, non rubare e così via) di spiegano in nome di questa comune figliolanza, o appartenenza.  Ma ora ci sarebbe di più: se ci riconosciamo fratelli e lo facciamo in nome di una comune paternità, apparteniamo tutti alla stessa famiglia, la famiglia umana, la famiglia incaricata di amministrare il creato, opera che il padre comune ci ha affidato per lasciarla più ricca e prospera alle future generazioni.

Ecco la fratellanza che ci impone un’appartenenza, quella alla famiglia umana dei figli del padre comune, una responsabilità, quella verso il creato e le future generazioni, una solidarietà, quella verso i fratelli meno fortunati di noi.

Qui è evidente che la legge destinata a intervenire nel nome di tutti non possa che intervenire nel nome dei principi condivisi, cioè appartenenza, responsabilità, solidarietà. Questi principi comuni ci uniscono e ci impegnano davanti a tutti, stante la nostra rinuncia a crederci Dio o a paragonarci a lui. Chi credesse nel suo io come un sovrano assoluto, sentendosi dunque responsabile solo per sé e di sé, si chiamerà ovviamente fuori dalla famiglia dei figli uguali perché diversi. A lui il compito di tutelare solo se stesso, di credere solo in se stesso, di amare solo se stesso. Agli altri invece il compito, appartenendo alla grande famiglia dei figli del padre, di cercare insieme le regole per amministrare il bene avuto in eredità, di difendere l’appartenenza comune e di farlo nella solidarietà. Questa legge potrà soddisfare tutte le idee, tutte le opinioni, se rispetterà le diverse sensibilità stabilendo alcune regole di base. La prima è la dignità di ciascuno, credente o non credente. La seconda è il maggiore bisogno di aiuto da parte dei più deboli.

In questo nuovo sistema, credenti e non credenti che hanno rinunciato a credersi Dio potrebbero avere, seguendo l’insegnamento di Francesco, nel discernimento la bussola comportamentale  per uscire migliori e non peggiori dalla crisi. Non è un obbligo, è il suggerimento che l’enciclica potrà dare a tutti. Cosa vuol dire?

È molto semplice. Credenti e non credenti, agnostici e secolarizzati, potrebbero accettare un ordine non manicheo, cioè non teso a dividere i loro fratelli in figli del bene e figli del male. Questo  ordine gli farebbe vedere che il male esiste, ma dobbiamo individuarlo, ognuno di noi sforzandosi come può di capire questo male cosa sia. È il mio egoismo? È il mio arrivismo? È la mia scarsa solidarietà? È la mia debolezza? È la mia paura? È la mia solitudine?

Ecco, un ordine non più manicheo consentirebbe a credenti e non credenti di vedere i problemi che li accomunano, sentendosi cioè appartenenti fino in fondo a questa famiglia, non figli di se stessi e del proprio desiderio.

Chi sarà dunque chiamato a riscoprire se stesso il 4 ottobre? A me sembra chiaro che il 4 ottobre sarà il giorno dell’esame di coscienza per i secolarizzati, per gli agnostici. Per tutti coloro che oggi ritengono di non appartenere quel giorno ci sarà la possibilità di tornare a sentirsi parte di una storia più grande. La Chiesa di Francesco non sembra né imporre né temere la libertà degli individui, alla condizione che accettino di dirsi “persone”, cioè appartenenti. È il solo modo con cui ognuno di noi potrà contribuire a cercare di uscire da questa crisi migliori, non peggiori.

Fratelli tutti (anche i secolarizzati) a queste condizioni. La lettura di Cristiano

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