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Sono settimane di contatti intensi per l’Italia sul dossier Libia, quasi come se la Fase 2 della pandemia avesse di colpo riaperto il dossier. Oggi è stato il turno del wannabe alleato chiave, gli Stati Uniti, entrati nell’agenda dei colloqui della Farnesina – luogo di riattivazione dell’interessamento libico di Roma.

Il ministro degli Esteri, Luigi di Maio, ha parlato al telefono con il suo omologo americano, il segretario di Stato, Mike Pompeo, e secondo lo scarno readout fornito dalla Farnesina i temi al centro del colloquio sono stati la Libia e il Covid.

L’epidemia, con tutti gli annessi e connessi, è chiaramente l’elemento di attualità più stringente – soprattutto per gli Usa, che sono molto più indietro dell’Italia con la fase epidemiologica. Ma l’aspetto interessante è il confronto sulla crisi libica, dossier che ultimamente si è infuocato sul campo di battaglia.

Quello che l’Italia – e l’attuale Casa Bianca – hanno considerato un “interlocutore” credibile, il miliziano ribelle Khalifa Haftar, sta perdendo terreno nel suo tentativo di conquistare il paese. Il governo onusiano di Tripoli, da sempre partner italiano e americano è passato a una Fase 2 della guerra civile, e sta riconquistando uno dietro l’altro i principali punti di slancio dell’offensiva haftariana.

In mezzo, il coinvolgimento turco, attore ambiguo ma recentemente riallineatosi sull’asse Nato (anche per l’impegno profuso nel sostenere gli altri alleati nella pandemia) e attualmente sostenitore essenziale dell’esecutivo internazionalmente riconosciuto – e considerato con ottica pragmatica un problem solver disposto al lavoro sporco. Sull’altro lato la Russia, che è una preoccupazione costante occidentale anche per le interferenze prodotte sulla stabilità delicata di un quadrante nevralgico come il Mediterraneo.

Contesto che prescinde dai contatti in corso con Mosca, sia quelli italiani sia quelli di Washington – oggi nella capitale russa è atterrato un aereo militare americano che portava equipaggiamento sanitario, probabilmente più funzionante di quello fornito con rotta inversa e arrivato anche in Italia (i ventilatori infiammabili ritirati per lotti difettosi che hanno causato la morte di pazienti affetti da Covid-19 in Russia).

L’interessamento americano sul dossier libico è piuttosto blando, la questione procede a scatti e declassata a una maggiore attenzione sol riguardo alla pratica terrorismo – che effettivamente con il procedere e l’accentuarsi degli scontri potrebbe avere un rinvigorimento. Ma come già successo a novembre delle scorso anno, quando uscirono informazioni di stampa che segnavano la presenza dietro Haftar di mercenari russi, anche adesso la questione può cambiare e riattivarsi: da ieri nella base haftariana di Al Jufra ci sono cacciabombardieri (di second’ordine) spostati dal ministero della Difesa russo dalla Siria.

Per Washington è un problema, per l’Italia un impegno. Giorni fa Di Maio ha parlato con il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, che professa la necessità di cessate il fuoco, ribadito anche oggi in un colloquio con l’omologo turco, ma guida un apparato dello stesso Cremlino che ha spostato in Libia armi letali a sostegno della continuazione di una guerra che il loro uomo, Haftar, sta perdendo.

Una decina di giorni fa, il ministro italiano ha avuto anche un contatto telefonico con il presidente del parlamento libico, Agila Saleh, politico molto ben introdotto a livello internazionale.

È probabilmente lui che Roma e altri paesi vendono come interlocutore più potabile per rinnovare i negoziati tra Cirenaica e Tripolitania, ma dal Governo di accordo nazionale di Tripoli c’è poca fiducia. Saleh non è considerato troppo credibile, anche se è sembrato sganciarsi da Haftar, che finora ha sempre difeso, per avviare una road map negoziale. Nei giorni scorsi, infine, Di Maio ha avuto una colloquio telefonico con Ahmed Maiteeg, vicepremier libico che nei giorni scorsi dalle colonne di Repubblica ha chiesto all’Italia di ravvivare il proprio ruolo sulla Libia, ora o mai più.

 

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