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In questi ultimi giorni autorevoli esponenti di governo del Movimento Cinque Stelle hanno riproposto, sia pure con varie sfumature, la necessità di un intervento dello Stato nel capitale di molte aziende considerate strategiche per il Paese e, al di là dell’ampliamento del Golden power, qualcuno di quegli esponenti è giunto a ipotizzare anche la costituzione di un nuovo Iri.

Il tema è molto complesso e meriterebbe di essere affrontato con grande rigore tecnico, ampia visione prospettica delle necessità del Paese e con un’accorta rivisitazione della storia economica del nostro Paese, dal gennaio del 1933 – anno di costituzione dell’Iri – sino al 2000, anno conclusivo della sua messa in liquidazione.

Ora chi scrive, se pure per mestiere è uno storico dell’industria, non ha tuttavia alcuna pretesa in questa sede di affrontare l’insieme dei profili prima richiamati per discutere il tema sollevato da dirigenti di quello che tuttora è il primo partito italiano per numero di parlamentari. Tuttavia qualche considerazione, che potremmo dire preliminare per avviare un confronto che dovrebbe dispiegarsi in forme laiche, senza cioè rigide collisioni di tesi contrapposte, meriterebbe di essere introdotta.

La prima: oggi lo Stato è ancora azionista di maggioranza relativa – con partecipazioni dirette del Mef, e/o tramite la Cassa depositi e prestiti e Fintecna – di grandi holding industriali di assoluto rilievo per l’economia nazionale come Eni, Enel, Leonardo, Fincantieri, Terna, Fs, Rai, e di altre società minori, ma vi è anche una banca come il Montepaschi quotata a Piazza affari, ma controllata da capitale pubblico.

Alcune delle grandi società appena citate sono anch’esse quotate in Borsa, vi raccolgono investimenti di big player finanziari italiani ed esteri, ma anche di piccoli azionisti, e distribuiscono dividendi quando gli utili lo consentono e gli amministratori, fra i quali siedono rappresentanti del capitale privato, ritengono di ripartirli. Pertanto, non si è affatto in presenza di imprese decotte, tutt’altro. Quelle aziende infatti, com’è noto, competono con successo sui grandi mercati internazionali, superando spesso la concorrenza di imprese anche maggiori per dimensioni, e realizzano alleanze di assoluto rilievo in campi che vanno dalle estrazioni petrolifere alla costruzione di aeromobili, solo per citare due fra gli esempi più noti.

Allora, fermi restando i criteri di rigorosa economicità cui devono ispirarsi le gestioni di quelle come di tutte le altre imprese, si potrebbe allargare il perimetro partecipativo dello Stato ad altre aziende quotate (e non) che siano fra i cardini del nostro sviluppo, ma che potrebbero essere preda di appetiti di agguerriti competitor in questo periodo di pesanti flessioni borsistiche? Why not?

Perché non si potrebbero assumere o ampliare quote pubbliche in società da difendere da scalate ostili, naturalmente con il consenso dell’azionariato privato laddove esso risulti esclusivo o prevalente? Sugli assetti e i ruoli gestionali poi si definirebbero accordi con quest’ultimo, puntando sui migliori manager esistenti sul mercato. La stessa partecipazione pubblica inoltre potrebbe configurarsi a termine secondo accordi da definirsi nei patti parasociali.

Ma il capitale pubblico potrebbe anche intervenire da solo per l’avvio di investimenti a redditività differita nel tempo per i quali i privati potrebbero non avere le risorse o la volontà di realizzare, in settori di assoluto rilievo strategico per il presente e il futuro del Paese, dagli interventi per il riassetto idrogeologico e per nuove grandi infrastrutture con gestione a reddito a quelli per sistemi sanitari più avanzati? Indubbiamente, ma di esempi se ne potrebbero fare molti altri, com’è evidente.

Bisognerebbe allora ricostituire un ente come l’Iri in cui riaccorpare partecipazioni che lo Stato già possegga in società come Leonardo, Fincantieri o che potrebbe assumere anche in un prossimo futuro? Non ci si innamori delle formule, ma non si escluda nessuna ipotesi che dovrebbe essere studiata e approfondita nella sua fattibilità nell’esclusivo interesse del nostro Paese.

E se è consentita un’ultima considerazione di carattere storico, è appena il caso di ricordare che l’Iri, con la formula originale delle partecipazioni statali, assolse un ruolo fondamentale, anche se non esclusivo, nella ricostruzione prima e nel decollo economico del nostro Paese, contribuendo con il capitale privato a farlo diventare una delle maggiori potenze economiche a livello internazionale. E con l’Iri, vi contribuirono l’Eni, fondata nel 1953 e guidata sino al settembre del 1962 da Enrico Mattei, e l’Enel costituita agli inizi del 1963 dopo la legge di nazionalizzazione dell’energia elettrica dell’anno prima.

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In questi ultimi giorni autorevoli esponenti di governo del Movimento Cinque Stelle hanno riproposto, sia pure con varie sfumature, la necessità di un intervento dello Stato nel capitale di molte aziende considerate strategiche per il Paese e, al di là dell’ampliamento del Golden power, qualcuno di quegli esponenti è giunto a ipotizzare anche la costituzione di un nuovo Iri. Il tema…

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