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Un collasso di portata storica per il petrolio, su questo non c’è dubbio. Un capitombolo che è arrivato a toccare il meno 30% e che ha avuto ricadute sia dirette su tutti i titoli dei giganti petroliferi, spesso rilevanti sugli indici azionari delle Borse, sia indirette esacerbando un già elevato allarmismo per la diffusione del coronavirus e le sue ricadute sull’economia. Ha così contribuito non poco a riscatenare vendite da panico generalizzate.

Perché questo crollo? All’origine c’è la deriva cui si è assistito dopo venerdì scorso tra i grandi produttori a seguito del vertice allargato dell’Opec Plus. Il fallimento di concordare una linea di risposta al coronavirus con nuovi tagli, chiesti dall’Opec e su cui spingeva il primo produttore globale, l’Arabia Saudita, e respinti dal primo degli esportatori non allineati, la Russia, è ulteriormente degenerato nelle ore e giorni successivi. Il non accordo su nuovi tagli, infatti, innanzitutto comporta anche non aver concordato di proseguire quelli già in essere. E quindi, teoricamente, da fine marzo porte aperte a qualunque aumento produttivo. Un mix micidiale: una prospettiva di meno domanda, causa virus e più produzione che hanno avuto un esito drastico sulle quotazioni.

DIETRO AL CROLLO

Formiche.net ne ha parlato con Massimo Nicolazzi, docente di Economia delle fonti energetiche presso l’Università di Torino e autore del libro Elogio del petrolio (Feltrinelli). “Il crollo poteva aversi anche tra un mese, certamente quando deciso dall’Opec ha costituito un fattore di accelerazione. Ma forse c’è un dato che vale la pena guardare. Dall’inizio di quest’anno sono stati consumati 2,5 milioni di barili in meno al giorno, che possono arrivare a 4,2, di cui 3,6% cinesi. Nella pratica è venuto meno circa il 10% del mercato petrolifero. Solo in Cina siamo dinnanzi a un declino di 3,6 milioni di barili al giorno su 100”, spiega Nicolazzi.

NESSUN CIGNO NERO

“Il crollo si è verificato perché si sono fermati i trasporti, si sono fermate le fabbriche e si è fermato il commercio. Non siamo dinnanzi a un avanzamento stravolgente delle rinnovabili, sia chiaro, questa è una caduta da coronavirus, non facciamoci strane idee. Meno domanda uguale crollo del prezzo, se poi ci si mette anche l’Opec…”, precisa l’esperto. Per il quale tale crollo non è quel cigno nero, tanto evocato in questi giorni. “Non credo si possa parlare di cigno nero, questo fenomeno è in qualche modo improbabile ma non certo assolutamente non sorprendente. Abbiamo già visto virus che passano dagli animali all’uomo con effetti devastanti, sono fenomeni sporadici ma in un certo senso prevedibili, nel senso che uno dovrebbe dare per normale che succeda. Basta pensare alla Sars. Per questo la definizione di cigno nero non mi pare appropriata”.

LO SCENARIO

Chiariti i retroscena del grande crollo petrolifero, rimane da capire cosa succederà nel futuro. Lo stesso Nicolazzi prova a tracciare uno scenario. “Ovviamente, i cinesi ricominceranno a produrre pesantemente una volta finita l’emergenza, anche se oltre a chi produce serve chi consuma. E senza i consumi non si esce dal ribasso del greggio. Per questo tutto dipende da quanto durerà questa emergenza. Molti osservatori prevedono una ripresa dalla seconda metà del 2020. Ma se credessi alla favola che col caldo si svolterà perché il virus muore, sarei felice. Ma non c’è nessuna evidenza scientifica di questo. Semmai è più probabile che smetta di sprofondare prima il petrolio delle Borse”.

Perché il crollo del greggio non è un cigno nero. Parla Nicolazzi

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