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Ormai è passato qualche anno da quel titolo di Politico Europe “Europe’s military maestros: Italy”. Un titolo che ha fatto saltare sulle poltrone i politici, da sempre restii a parlare della presenza dei militari in zone di guerra e che ha inorgoglito le Forze armate del nostro Paese, aprendo anche gli occhi a una parte dell’opinione pubblica (come certificato dall’ultimo rapporto Eurispes).

L’Italia scoprì con quell’articolo che la reputazione dei suoi militari era di gran lunga superiore all’estero che non in casa. Dopo quella vicenda, i decisori politici hanno iniziato a guardare il lavoro delle Forze armate in operazioni internazionali con maggiore distensione e attenzione, forse però focalizzando poco gli sforzi sull’interesse nazionale e sulla visione strategica che porta a scegliere di essere presenti in quello scenario piuttosto che in un altro.

RIPENSARE LA SICUREZZA ITALIANA

Questa riflessione interviene in un momento di attivismo del fronte sicurezza in vista della preparazione del decreto sulle missioni internazionali che il Parlamento sarà chiamato a votare prossimamente. Viene dunque chiesto che la presenza in Paesi stranieri sia un potente strumento di politica estera e che cementi le nostre relazioni con i partner. Ribadito che il nostro contributo nelle missioni internazionali compensi la carenza di budget che impegniamo nell’Alleanza Atlantica. Sul fatto che i soldati italiani si trovino nel posto giusto e al momento giusto ci sono opinioni divergenti. Un esempio su tutti è la presenza italiana in Afghanistan. Dopo 18 anni dall’avvio del primo contingente, le regole d’ingaggio sono naturalmente cambiate.

In questi anni è mutata la situazione politica, le esigenze della popolazione e le motivazioni per restare. Ma avendo aderito alla linea Nato “in together, out together”, finora abbiamo mantenuto fede ai nostri impegni. Tuttavia, gli scenari critici più vicini ai nostri interessi (Libia) ci impongono di pensare a una rimodulazione delle Forze in campo e l’Italia potrebbe farsi promotrice di questa esigenza in seno all’Alleanza atlantica.

L’auspicio, comunque, è che il tema venga trattato dal Parlamento in maniera bipartisan e matura, senza logiche elettorali. Perché in fondo è una questione che riguarda la strategia di proiezione internazionale. Il Libro bianco (mai attuato) elencava meticolosamente luoghi (Mediterraneo-Africa), visione e strumenti per ottenere un quadro complessivo. Oggi, avendo scartato questo utile strumento, dobbiamo rivedere la nostra presenza all’estero tenendo prima di tutto conto del nostro interesse nazionale. Quali sono le aree che, se destabilizzate, arrecherebbero maggiori danni al nostro Paese? E soprattutto, quali Paesi risultano strategici per gli interessi (politici, energetici, di sicurezza, ecc.) italiani? Si tratta di scelte che, fermo restando il concerto con il nostro principale alleato, gli Stati Uniti, il nostro governo è ormai chiamato in alcuni casi a compiere in autonomia. In un certo senso, siamo stati abituati che gli altri sceglievano i teatri per noi e poi noi seguivamo.

ITALIA SEMPRE PIU’ SOLA?

Oggi siamo nel bene e nel male padroni del nostro destino. E l’esempio libico non brilla per lungimiranza e costanza. In molti teatri siamo presenti attraverso accordi sottoscritti con partner Nato o transatlantici, ma in altri, come la Libia, la faccenda è diversa e prevede un certo attivismo italiano nel tracciare una strada chiara per una missione. Gli Stati Uniti, secondo le intenzioni dell’Amministrazione Trump, chiedono un maggiore impegno agli alleati europei nel sostituire le forze Usa in alcune aree (come il Mediterraneo e l’Africa) che Washington non ha interesse a presidiare.

Questa nuova politica ha due effetti sull’Italia: siamo chiamati a compiere scelte (presumibilmente strategiche); negli scenari in cui non c’è l’ombrello Usa abbiamo bisogno di una serie di tecnologie aggiuntive che, in missioni con gli Usa, venivano fornite dai nostri alleati. Quanto agli scenari, l’invio di un contingente più robusto nel Sahel (area dove il jihadismo è molto insidioso), oltre ad essere legato a doppio filo con la stabilizzazione della Libia, è anche utile per rinsaldare il rapporto con la Francia. Una regione di interesse, quella del Sahel, già confermata dal ministro Lorenzo Guerini nel recente colloquio con il numero uno del Pentagono, Mark Esper. E novità del prossimo decreto missioni, insieme al dispiegamento di unità navali nello Stretto di Hormuz. Anche lì su impulso della Francia. Parigi, al nostro contrario, sa bene scegliere strategie e percorsi per raggiungere gli obiettivi. Una lezione da cogliere per affrontare il dossier libico, che è senza dubbio la nostra priorità. Come ha spiegato il generale Claudio Graziano, presidente del Comitato militare dell’Unione europea, “mai la guerra è stata tanto vicina all’Europa”.

POSSIBILITÀ DI RILANCIO

Un primo segnale importante può arrivare dalla piena riattivazione e correzione della missione Sophia nel Mediterraneo, allargandola al controllo sull’embargo di armamenti. La possibilità che l’Italia guidi una missione di monitoraggio con forze di interposizione per il Nord Africa e sotto l’egida Onu è stata ribadita nell’incontro tra il nostro ministro della Difesa ed Esper a Washington, con l’auspicio che gli alleati riescano a favorire una de-escalation; a far mantenere gli impegni di cessate il fuoco raggiunti a Berlino e a contenere il dinamismo e l’operatività di forze militari straniere (come Ankara) che stanno complicando un quadro già intricatissimo.

Forse il nuovo confronto Italia-Usa darà un nuovo input per rifocalizzare gli obiettivi e le strategie del nostro Paese. Attendiamo sviluppi.

Articolo pubblicato su AffarInternazionali.it

Verso il decreto missioni. La strategia che serve al Paese

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