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Quattro mesi. Tanto è stato dato alla cinese Huawei, azienda leader globale nella telefonia mobile e nella tecnologia 5G, per cambiare radicalmente la catena di fornitura. L’ultimatum è arrivato dal Dipartimento del Commercio Usa lo scorso 15 maggio. Finito il periodo transitorio, il colosso tech di Shenzen, accusato dal governo americano di spionaggio e di rapporti di dipendenza con il Partito comunista cinese (Pcc), non potrà più acquistare chip e semiconduttori da aziende che utilizzano tecnologia americana. Come la taiwanese Tsmc (Taiwan semiconductor manifacturing corporation), gigante dei semiconduttori e pilastro della supply chain di Huawei. Dopo un anno di scontro frontale, questa misura ha varcato una nuova linea rossa. L’amministrazione di Donald Trump ha messo in atto un primo assaggio del tanto discusso “decoupling” dalla tecnologia cinese. È una mossa senza precedenti, che avrà conseguenze di lungo periodo, da entrambe le parti. Ma non è detto che funzioni. Michele Geraci, ex sottosegretario al Mise con il governo gialloverde, economista della New York University a Shanghai, ha i suoi dubbi.

Geraci, quello di Trump ha tutto l’aspetto di un bloody nose.

Da un lato può sembrare una misura invadente perché entra nel cuore del tessuto di Paesi terzi e quindi crea disagi, anche importanti alle economie degli altri, penso alla Gran Bretagna che ha già espresso forte preoccupazione. Dall’altro lato, può anche essere un modus operandi che mira a tirare un po’ la corda per accelerare un processo di riforme delle regole di ingaggio internazionali. E a volte questo approccio è positivo: Trump ha forzato la mano al Wto, all’Oms, per cercare di riformarli. In questo caso, trattandosi di Paesi sovrani e non di organizzazioni internazionali, credo che il passo sia forse troppo lungo e con vantaggi economici comunque incerti.

Perché chiama in causa anche Stati terzi. Ma questa è la filosofia di tutte le sanzioni secondarie. Anche quelle contro l’Iran, che voi al governo avete accettato.

Quella è una vicenda più politica. La Lega su altri fronti, come quello delle sanzioni alla Russia, è stata possibilista, ma non per una posizione pro-Russia – le assicuro che Salvini da buon sovranista è solo pro-italiani, ma piuttosto per venire incontro alle richieste dei nostri imprenditori del Nord, da Veneto al Trentino, colpiti dal contro-embargo russo e vittime per colpe non loro. La politica è fatta anche di tattica. Nessuno nega che gli Stati Uniti siano un nostro storico alleato.

Allora?

Allora in politica estera, a mio modesto avviso, bisogna essere cauti, le dinamiche geopolitiche sono complesse, in continua evoluzione e il rischio di passi falsi è sempre elevato. A dimostrare che pratico quel che dico, sono certo che lei non mi ha mai sentito proferire parole contro l’operato di altri stati sovrani. In aggiunta, il detto “il nemico di un mio amico, è mio nemico” non vale sempre. Se andiamo contro altri Paesi per farci amici l’America temo otteniamo ben poco. Gli americani sono i primi a capire la strumentalità di questi gesti.

Cosa fare allora?

Per confermare, laddove fosse necessario, la nostra amicizia a Washington, io non ho mai criticato l’Iran, per esempio, ma mi sono preso vari aerei per girare tra Boston, New York e Washington in lungo e largo, incontrando tutti gli strati della società americana, dai colleghi al Governo Usa e alla Casa Bianca, alle aziende, ai media americani, alle banche d’affari, i nostri concittadini fino a tante università e think tank dove ho tenuto varie lezione per spiegare, con parole mie, la posizione dell’Italia, senza intermediazioni. Credo abbia funzionato. Del resto avendo studiato, lavorato e vissuto per circa vent’anni attorno al mondo USsa credo di conoscer bene il loro modo di fare, più di tanti altri. La sempre cordiale accoglienza che ho ricevuto in America, ma anche l’aver ottenuto l’esclusione di gran parte del Made In Italy dalla lista dalla dei prodotti soggetti a dazi, credo dimostrino che lavorando bene, i risultati pratici si possono toccare con mano. Sempre a servizio delle nostre aziende esportatrici.

Però da qualche parte bisogna stare. Sul 5G gli Stati Uniti chiedono una presa di posizione. O è bianco, o è nero.

Io credo che gli Stati Uniti giustamente, per loro interesse, tengono teso il tono del dibattito sia per ragioni di merito che per ragioni di metodo. Sul merito, è chiaro che l’occidente si è addormentato per decenni e non ha saputo comprendere il grande sviluppo economico e sociale della Cina, da noi in Italia credo uno dei sottosegretari al commercio estero, mio predecessore, non sapeva neppure il Pil cinese. Ciò nonostante, io sono ottimista e ci vedo una via di mezzo.

Quale?

Per esempio, passando al metodo, credo che questa tensione tra Usa e Cina avrà nelle elezioni di novembre un grande spartiacque. Trump deve tenere altissimo il livello di tensione con la Cina fino ad allora, parla ai suoi elettori più che a Xi Jinping. Ha fatto del deficit la sua battaglia principale – tema sui cui benefici per gli Usa si potrebbe anche discutere a lungo ed arrivare a conclusioni opposte ma dal punto di vista tattico è logico alzare la posta fino a novembre.

A Pechino tifano Biden?

Tutt’altro. Ritengo che alla Cina faccia comodo che Trump sia rieletto. Così facendo entrerà nel suo secondo ed ultimo mandato. Non dovrà più cercare il favore degli elettori e non avrà bisogno di alzare fino a questo punto i toni. Questo a prescindere da un candidato o l’altro o dalle proprie politiche, è proprio una questione di legge elettorale Usa che rende il secondo mandato di tutti i presidenti, più soft su tutto e si bada più al sodo che alla retorica. E se si cerca il sodo, meglio fare gli interessi economici delle aziende Usa, non litigare fine a sé stesso.

Trump intanto ha promesso il decoupling dalla tecnologia cinese. Fantascienza?

Non credo ci sarà, semplicemente perché non si può più fare e perché penalizzerebbe molto le aziende americane stesse. Come dicevo, credo dopo novembre se si passa alla sostanza nei rapporti tra Usa e Cina, nell’interesse win-win di tutti. Faccio un esempio: un possibile decoupling con la Cina, potrebbe portar degli effimeri benefici agli Usa nel breve, ma non farà altro che spingere la Cina ad accelerare il suo processo di sviluppo di tecnologie domestiche che la porteranno, ben presto, ad essere addirittura superiore a quelle occidentali. Quindi questo tanto decantato decoupling avrebbe l’effetto opposto. Un altro grande sonno dell’occidente per risvegliarci tra un decennio ancora più indietro. Che dico, un decennio, un paio d’anni, credetemi che conosco come un sistema statalista possa creare innovazione. Chieda anche alla collega Mazzucato, probabilmente mi darà ragione.

L’Europa rimane in mezzo?

In questa corsa all’egemonia tecnologica rischia di rimanere col cerino in mano, impegnatissima a parlare, a fare progetti di carta senza che nessuno a Bruxelles comprenda bene la magnitudine della sfida. Noi investiamo circa 3 miliardi in Ia, la Cina ha un piano da 150 miliardi. Capisce che non cooperare con la Cina ci relegherà all’irrilevanza.

Torniamo alla scure contro Huawei. Ora cosa cambia?

Ripeto, si tratta di una mossa tattica, e non sono sicuro che entri in vigore prima delle presidenziali. Dopotutto Trump ci ha abituato ai rinvii. Il bando presidenziale contro Huawei del maggio 2019 non è mai entrato in vigore. Ha fatto così anche con i famosi, ventilati dazi sul parmigiano (grazie a me). Questo perché sa che il deficit talvolta non è un male, dipende dalla sua composizione e da altri fattori, non è un ostacolo per gli Usa. Ma è un ottimo cavallo elettorale, tanto gli elettori mica sanno chi era David Ricardo. In alcuni casi avere un deficit commerciale con un singolo Paese è un vantaggio anche per l’Italia: se non comprassimo miliardi di euro di gas dall’Azerbaijan o il caffè dalla Colombia forse azzereremmo il deficit, ma chiuderebbero tutti i bar e molte fabbriche spente.

C’è il rischio di un effetto boomerang per gli Stati Uniti?

Il sistema è molto integrato. Quando Trump impone dazi alla Cina, colpisce anche le molte aziende americane, per esempio Apple, che dalla Cina esportano negli Usa. La Cina incasserà il colpo, nel breve periodo. Nel medio-lungo lo statalismo cinese reagirà velocemente, come ho già ricordato, e come ha fatto ogni volta di fronte a un export-ban. Accelererà il processo di transizione, e stavolta troverà altri canali per acquistare il necessario dai Paesi satelliti, Taiwan, Corea, Vietnam, Indonesia che diventeranno fornitori del manifatturiero cinese.  Insomma, l’occidente, l’Europa non sono le regioni al mondo con il tasso di crescita massimo ne con la voglia, la fame di progresso che ha l’Asia.

Chi paga il prezzo più alto?

Vedremo fin dove vorrà arrivare l’amministrazione americana. Nel breve periodo un impatto ci sarà. Huawei fa bene ad alzare i toni, a sottolineare che si tratta di una scelta che travalica i confini tradizionali, ma potrebbe anche lasciare giocare questo ruolo ai governi dei paesi coinvolti, loro stessi perdenti da questo bando Nel lungo periodo il bando rischia di aumentare il soft power cinese sui mercati europei. La decisione di Trump, ad esempio, colpisce duramente le manifatture britanniche, che potrebbero decidere di volgere lo sguardo altrove.

Eppure il primo ministro Boris Johnson sembra pentito del parziale via libera a Huawei e sta tornando sui suoi passi.

Lo ha fatto anche sull’immunità di gregge finché non si è ammalato lui. L’Inghilterra sta entrando in recessione. Non penso possa permettersi di bandire da un giorno all’altro un’azienda con una consolidata presenza nel mercato inglese come Huawei. Anche perché, parliamoci chiaro, fa i prodotti migliori, al miglior prezzo. Non è che lo dico perché io abbia fatto le analisi comparate sui prodotti dei vari fornitori, ma ritengo, ed è una mia ipotesi, che se molti operatori telecom occidentali stiano considerando forniture da Huawei, nonostante sia azienda cinese, allora il loro value-for-money dovrà essere superiore, altrimenti si convergerebbe su tecnologie nostrane. Non è un caso che abbia una posizione predominante nel mercato.

È anche vero che la Cina può contare su un sistema di sussidi di Stato che in Occidente è più difficile da giustificare. Questo non altera la concorrenza

Qui ci sono due livelli possibili di analisi. Cross section vs Time series. Se adottiamo la prima, il responso è chiaro: il governo cinese, oggi, elargisce più sussidi alle sue aziende di quanto non facciano i governi europei, sulla Francia, ho qualche dubbio. Se invece scegliamo la seconda, dobbiamo riconoscere che la Cina oggi è un Paese in via di sviluppo, con un Pil pro-capite di 10,000 dollari contro i 40.000 di media in Europa. Negli anni ’70-80, quando eravamo più poveri, anche i governi europei, a partire da quelli italiani, sussidiavano le loro imprese.

Però dagli anni ’80 i Paesi europei hanno aperto i mercati e allentato la presenza dello Stato nelle imprese. La Cina seguirà lo stesso trend?

Ne dubito. Mettiamoci nei loro panni. Cos’è successo al Pil medio in Italia dopo vent’anni di liberalizzazione? È calato del 10%. Se io fossi ministro dell’economia in Cina non tiferei per la liberalizzazione del mercato fine a sé stessa. Anche perché non funziona in un Paese in via di sviluppo. La Cina sa che non raggiungerà mai i nostri livelli di benessere media. C’è un limite fisico, inequivocabile ed è appunto il Pil pro-capite. E quindi sa che deve tenere sempre in mano allo Stato la gestione dell’economia e della società. Del resto anche noi, ricchi, adesso, mettiamo in dubbio il modello liberista e ci rifugiamo nei sussidi. Mi sembra anche che alcuni giornali italiani che hanno predicato il liberismo da anni, adesso in crisi, chiedano sussidi, e fanno bene.

Non solo gli Usa. Anche la Commissione Ue sta per pubblicare un Libro bianco in cui chiede di aumentare lo screening sugli investimenti diretti esteri dalla Cina.

Siamo al nulla misto al niente. L’Ue non ha giurisdizione sugli investimenti, questa è materia di competenza degli Stati membri. Questo Libro bianco è il tipico tentativo dell’Ue di fare più di quel che i Trattati le affidano. Non ha valore, e dimostra la debolezza dei membri della Commissione. Un vorrei ma non posso, che mette in evidenza soprattutto il “non posso”.

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