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Un patto per l’export per uscire dalla crisi. Con una cerimonia alla Farnesina con Luigi Di Maio e una folta squadra di ministri, da Roberto Gualtieri a Paola De Micheli, da Dario Franceschini a Teresa Bellanova, è stato annunciato questa mattina il “Patto per l’export”. Un pacchetto di risorse mobilitate dal governo a favore dell’internazionalizzazione delle imprese, per la cifra monstre di 1,4 miliardi di euro. È il giusto canale per uscire dalla crisi, commenta a Formiche.net Beniamino Quintieri, già presidente di Sace e professore di Economia Politica all’Università di Tor Vergata. Ma l’Italia da sola non può farcela. Molto dipenderà dal tiro alla fune commerciale fra Washington e Pechino. Così come dalla ripresa di un vicino di casa, la Germania, cui il commercio italiano è indissolubilmente legato.

Quintieri, l’Italia punta sull’export per ripartire. Un miliardo di euro è una bella cifra.

Questo lo sappiamo dalla storia del secondo dopoguerra ma soprattutto dalla storia degli ultimi dieci anni. Dopo la crisi finanziaria del 2008 i pochi punti di crescita che abbiamo recuperato li dobbiamo all’export. Oggi le altre variabili che determinano la crescita, dai consumi agli investimenti pubblici e privati, sono stagnanti o col segno negativo. L’unica via d’uscita è offerta dall’export, quindi ben vengano queste nuove risorse.

Che impatto ha avuto l’emergenza sul comparto?

Negativo, ovviamente. Questa pandemia ha spezzato un trend positivo dell’export ininterrotto per dieci anni, solo negli anni ’60 si era verificata una scia simile. Ora la nostra ripresa è legata a quella dell’economia mondiale. Le previsioni del Fondo monetario internazionale non fanno ben sperare, vanno dal -11 al -30%. È in arrivo un crollo del commercio internazionale, da sempre ancoraggio di quello italiano, difficile che la ripresa si affacci prima del 2021. Anche perché, in Italia, raramente la ripresa ha un andamento a V. Molto dipenderà da quella di alcuni Paesi chiave, a partire dalla Germania.

Quindi Roma deve tifare Berlino?

Senza dubbio. La Germania è il primo mercato europeo, e quello cui siamo più legati. Il primo di sicuro per i prodotti finiti, un asse portante delle catene globali del valore. Una parte consistente delle esportazioni delle nostre imprese al Nord, In Emilia-Romagna, Lombardia, Veneto, è interconnessa con quelle tedesche. C’è un interscambio rilevante di beni semilavorati e componentistiche.

Insomma, c’è il rischio di una crisi a catena.

Esatto. Soprattutto dell’automotive. In questi giorni è stato annunciato un piano per la ripresa tedesca molto forte, per certi versi più importante di quello italiano. L’altra variabile da monitorare sono gli investimenti. La crisi di Paesi come la Cina rischia di abbattersi sull’export di settori in cui l’Italia è leader mondiale, come quello dei macchinari.

La politica dei dazi non è mai andata in quarantena, soprattutto fra Stati Uniti e Cina. Come cambia la mappa commerciale dell’Italia?

La crisi ha messo un po’ in sordina il tema dei dazi. Sarà decisivo l’esito del confronto fra Stati Uniti e Cina, bisogna capire come e se l’Europa sarà toccata dai dazi. Nel breve periodo potrebbe beneficiarne, perché, non imponendone di suoi, può attrarre investimenti. Ma c’è anche il rischio opposto. Se Cina e Stati Uniti si mettono d’accordo su determinate quantità di beni da scambiare e lasciano alte le tariffe, l’Europa ne risentirebbe.

L’Europa ha preso precauzioni in tempo?

Finora si è mossa bene. A fronte della crescita del protezionismo, ha sempre perseguito nuovi accordi commerciali, su tutti quelli con Corea del Sud e Giappone e il Ceta. Accordi preferenziali, che hanno sopperito alla debolezza dell’approccio multilaterale. L’Italia è il Paese che trae maggiore vantaggio da questo tipo di accordi. Le imprese possono andare a produrre in loco aggirando i dazi, seguire procedure uniformi.

Torniamo in Italia. Col senno di poi, che bilancio fare del trasferimento dell’Ice alla Farnesina?

Se ne parlava da molti anni, dal Mise e in parte anche da Confindustria c’è sempre stata una certa resistenza. Negli anni le cose sono cambiate. Oggi gli ambasciatori sono più attenti e preparati per affrontare le sfide dell’internazionalizzazione. A mio parere non è il modello ottimale, ammesso che un modello simile esista. Sarei per includere l’Ice in una grande agenzia di promozione del turismo e del Made in Italy, gestita con criteri privatistici e sotto il coordinamento della presidenza del Consiglio e dei ministeri competenti. In poche parole, la deministerializzerei un po’.

Professore, l’Istat prevede uno spiraglio per il terzo trimestre. Presto per esultare?

Sicuramente è presto. Se una speranza si può avere, è che la caduta del Pil non sia superiore al 10%. Se si attestasse intorno al 7-8% si eviterebbe il peggio.

Capitolo investimenti. La Commissione Ue sta per pubblicare un Libro bianco sullo screening. Tanti Paesi membri si sono già mossi, l’Italia ha esteso il golden power. Lei che idea si è fatto?

Non sono molto favorevole all’estensione del golden power. Questo strumento fu pensato per fermare l’assalto alle aziende italiane in un momento di oggettiva debolezza. Oggi un Paese che deve attrarre investimenti in qualsiasi forma, comprese le acquisizioni di imprese che, va detto, può essere un fatto positivo, rischia di veder calare l’attrazione di capitale di cui ha bisogno. Le nostre imprese devono essere ricapitalizzate e crescere di dimensioni. Non abbiamo grandi gruppi come i francesi, e non è un caso che le imprese italiane entrate nel circuito francese ne abbiano tratto vantaggi.

Chiudiamo con gli Stati generali in arrivo. Cosa si può fare per evitare che ognuno dica la propria, senza arrivare a un compromesso?

Il premier Conte fa quello che può fare ora: media. Anche perché quella del governo e direi anche dell’opposizione non è una visione di lungo periodo, che è invece ciò che serve in questo momento. L’Europa ha fatto bene a parlare di “Next generation” per i fondi europei, anche perché saranno i giovani a ripagare i debiti che facciamo oggi. Serve una visione, non è con politiche di trasferimento di risorse come gli 80 euro in busta paga o Quota 100 che usciremo dalla crisi.

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