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Austria, Brasile, Repubblica Ceca, India, Indonesia, Italia, Spagna, Turchia, Regno Unito e Unione europea. Dopo l’indagine aperta l’anno scorso sulla Francia, l’amministrazione statunitense di Donald Trump ha deciso di ampliare il raggio d’azione per determinare se le molte digital tax adottate dai partner commerciali degli Stati Uniti contro i giganti della tecnologia abbiano determinato una discriminazione verso i gruppi americani. “Il presidente Trump è preoccupato per il fatto che molti dei nostri partner commerciali stanno adottando regimi fiscali pensate per colpire ingiustamente le nostre società”, ha dichiarato Robert Lighthizer, rappresentante del Commercio di Washington. “Siamo pronti ad adottare tutte le misure appropriate per difendere le nostre aziende e lavoratori da tali discriminazioni”.

La Silicon Valley e la Camera di commercio degli Stati Uniti sono già sugli scudi. Ma l’incentivo per i vari Paesi a mettere in piedi una digital tax è evidente, come scrive Paul Donovan di UBS riportato dal New York Times: “Con i prestiti in aumento, le aziende tecnologiche con operazioni globali e pagamenti fiscali limitati — indipendentemente da dove si trovi la loro sede — rappresentano per i governi un obiettivo politicamente facile”. Amazon, Facebook e Google sono le prime sulla lista di molti governi.

Come spiega Il Sole 24 Ore, i Paesi sopracitati sono finiti nel mirino attraverso la Sezione 301 del Trade Act del 1974, legislazione che, nota il quotidiano finanziario, “autorizza il presidente degli Stati Uniti a intraprendere in via unilaterale misure per ottenere la rimozione di qualsiasi atto, politica o pratica di un governo straniero che viola un accordo commerciale internazionale e che grava o limita il commercio americano”. Se verrà stabilita la discriminazione, gli Stati Uniti potranno decidere nuove tariffe commerciali contro i Paesi partner.

Come ricorda sempre Il Sole 24 Ore, lo scorso anno la Wto ha autorizzato dazi Usa contro prodotti europei fino a 7,5 miliardi per la vicenda degli aiuti di Stato Airbus/Boeing. “Anche prodotti made in Italy sono finiti nel paniere, tassati al 25% — pur non facendo parte l’Italia del consorzio Airbus — formaggi come Parmigiano, Grana, mozzarelle e gorgonzola, mortadella e salami Dop, il limoncello e gli altri liquori, comparto in forte crescita negli Usa prima dei dazi”, scrive il quotidiano di Confindustria ricordando come l’ufficio del rappresentante Lighthizer avesse minacciato altri dazi per la digital tax decisa da Francia e Italia contro le società tecnologiche (dazi del 100% su 2,4 miliardi di prodotti tra cui champagne ma anche i vini italiani, la pasta e l’olio d’oliva) non prima del passo indietro di Parigi per un accordo di sospensione delle tariffe sulla digital tax in attesa della normativa in sede Ocse. 

E l’Italia, uscita indenne dal round di dazi di febbraio? Le minacce “restano sul tavolo e vengono ora rilanciate” dall’indagine dell’amministrazione Trump, conclude Il Sole 24 Ore, ricordando come la tassa digitale italiana sia in vigore dal primo gennaio 2020 e colpisca con un’imposta del 3% i redditi da pubblicità digitale o servizi digitali delle aziende tecnologiche che hanno oltre 750 milioni di euro di ricavi annui globali, di cui almeno 5,5 milioni di euro prodotti in Italia. La riscossione è prevista per il 2021 ma l’Ocse potrebbe esprimersi prima, cioè in autunno. In tal caso, la digital tax italiana decadrebbe. Ma ciò non sembra aver convinto la Casa Bianca.

Digital tax, Trump difende le imprese Usa. Ecco cosa rischia l’Italia

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