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Da una corsa contro il tempo siamo passati a un tutti contri tutti. Se fino a qualche settimana fa, infatti, oggetto della discussione era trovare il vaccino per il Covid-19, in men che non si dica il quando ha lasciato spazio al chi – o meglio, al dove. Perché quel che è certo è che ogni Paese che abbia la possibilità di farlo sta cercando il vaccino, quel che è meno certo è come questo verrà distribuito una volta trovato.

IL CASO SANOFI

Pochi giorni fa la francese Sanofi aveva ceduto alle “lusinghe” statunitensi, assicurando la priorità di allocazione del vaccino all’America, in quanto primo finanziatore della ricerca. Scatenando, ovviamente, le furie di Parigi, che si è trovata ad aver in casa uno dei principali concorrenti alla corsa per il vaccino, e a rischiare di perdere le prime dosi, oltre che la credibilità. “Il vaccino è un bene pubblico che deve essere fuori dalle logiche di mercato”, ha detto furioso Macron, volendo forse ricordare a Paul Hudson, ceo dell’azienda farmaceutica, che la Sanofi batte bandiera francese.

AMERICA FIRST

Poco male per Donald Trump, che sta tentando di accaparrarsi il vaccino non da ieri, e che anzi continua sulla via dell’America First, a tutti i costi. Esattamente due mesi fa il presidente aveva già tentato di acquistare in esclusiva per gli Usa dalla CureVac tedesca (allora era fra le favorite), il brevetto di un eventuale vaccino. Incontrando, ovviamente, la ferma opposizione del governo tedesco alla pari di quello francese, forse poco contento che Trump abbia firmato un pre-ordine in bianco per assicurarsi comunque il vaccino francese.

CHI CORRE DI PIÙ

Insomma, se fino a qualche giorno fa la partita sembrava giocarsi tutta nel campo sanitario, oggi – ma forse già da molto prima, anche se con meno evidenza – si sposta sul campo geopolitico, dove tutti assicurano la condivisione del vaccino, ma tutti corrono per essere sicuri di averlo per primi. Al momento, sono più di cento i soggetti fra istituzioni e fondazioni a lavorarci su. Ma solo otto (quattro cinesi, due statunitensi e due europei) quelli passati ai testi clinici e fra questi forse non più di quattro quelli che sarebbero in grado di produrre una quantità di dosi minimamente sufficiente a coprire il fabbisogno che il Covid-19 richiede. Tra queste, sicuramente la Sanofi, appunto, francese, e la britannica GSK. Corrono in tanti, insomma, ma come sempre si avvicinano al podio in pochissimi. E tutti cercano di puntare sul cavallo vincente.

IL RUOLO PERDUTO DELL’ITALIA

Tutti, forse, tranne l’Italia. Negli anni infatti non solo abbiamo depauperato le nostre capacità produttive con sfrenate campagne di delocalizzazione, perdendo il vantaggio competitivo su un settore strategico come quello della sanità – e l’abbiamo visto nella perdurante carenza di materiale medico-sanitario durante il picco del nuovo coronavirus – ma anche accettato passivamente dei mancati investimenti che invece sarebbero stati fondamentali. Per politiche di risparmio, per lungaggini burocratiche all’italiana, per un regionalismo legislativo inefficace, per un’instabilità dell’esecutivo che non ha mai consentito di portare a termine qualunque investimento non solo di lungo periodo, ma anche di breve.

I FINANZIAMENTI BLOCCATI

Trovandoci, così, con un pugno di mosche in mano. Nonostante l’Italia sia il primo produttore farmaceutico dell’Unione europea. Perché quando la GSK rilevò la parte di Novartis relativa ai vaccini per 6,5 miliardi di euro, lasciando a Novartis il comparto oncologico, l’Antitrust europea bloccò la produzione di vaccini antinfluenzali perché la quota europea superava i limiti massimi. E all’Italia, attraverso la Fondazione TLS, andarono gli stabilimenti “fermi” della GlaxoSmithKline affinché ripartissero. A cui si assicurano fondi da tre anni. Fondi, però, mai arrivati. Nemmeno nel mezzo della bufera Covid-19.

L’OPINIONE DI WALTER RICCIARDI

Il tutto mentre il governo belga investe sulla produzione delle sedi GSK in Vallonia per un vaccino che ancora non c’è. E il primo ministro Benjamin Netanyahu assicura disponibilità produttiva massima per chiunque dovesse trovare il vaccino. Perché per averlo, oltre a trovarlo, bisogna accertarsi di poterlo produrre. E nonostante l’Italia assicuri che non corriamo il rischio di arrivare ultimi, perché, come ha riferito Walter Ricciardi, Consigliere del ministro della Sanità Roberto Speranza, a Formiche.net, c’è “una posizione comune in tutta l’Unione europea” e quando il vaccino verrà trovato e prodotto “sarà distribuito a tutti, nello stesso momento”, non possiamo dimenticare che i numeri per coprire il fabbisogno del vaccino per il Covid-19 sono altissimi. Ammontano infatti a venti miliardi le unità minime necessarie secondo l’Organizzazione mondiale della sanità.

I RISCHI PER IL NOSTRO PAESE

“Ad oggi su scala mondiale produciamo fra i 200 e i 250 milioni di set vaccinali, e invece per fermare il coronavirus ne serviranno molti di più”, ricordava infatti il presidente di TLS Fabrizio Landi qualche giorno fa a Formiche.net, “Il mondo sarà diviso fra chi potrà beneficiare del vaccino e chi no, con ricadute geopolitiche senza precedenti”. “Non si tratta di egoismo”, ha però aggiunto. “È normale che un Paese vaccini prima i propri cittadini”. Si spera, insomma, che lo stesso faccia l’Italia. Se infatti l’Europa garantisce la condivisione di ogni scoperta con i vicini, in molti si sono già mossi in altre direzioni. Gran Bretagna in primis, che nella voce del ministro della Salute Matt Hancock già ad aprile aveva riferito che qualunque vaccino prodotto del Regno Unito sarebbe stato distribuito prima sul territorio nazionale. Rischiamo dunque che la corsa ai vaccini per l’Italia finisca come quella alle mascherine. Persa.

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