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Meglio distinguere i piani, per non fare confusione. Joe Biden è l’indiscusso vincitore del Super Tuesday. Ha il fiato sul collo di Bernie Sanders, ma può lasciarselo alle spalle una volta per tutte grazie all’appoggio di Elizabeth Warren. La partita decisiva però si gioca altrove. Sono i wing-States, quelli che hanno votato Donald Trump nel 2016 e ancora ribollono di rabbia contro l’establishment democratico, il vero banco di prova per la corsa alla Casa Bianca del 2020, spiega a Formiche.net David Unger, storica firma del New York Times e professore di politica estera Usa alla John Hopkins.

Qual è la grande lezione di questo Super Tuesday?

Biden è più forte di quanto avevamo previsto. Il passo indietro di Klobuchar e Buttigieg gli ha dato una grande spinta, ma non basta per spiegare il comeback. Faccio un mea culpa. Il mondo accademico e intellettuale aveva ragionato con la logica, e la logica diceva che, dopo i primi passi falsi, gli errori di comunicazione, il boomerang del Kiev-gate, Biden era sfavorito. Ci sbagliavamo, abbiamo sottovalutato la componente emotiva di questo voto, il richiamo all’unità nel partito contro Trump ha prevalso sul resto.

Cosa dicono le primarie dem della sfida di novembre?

Molto poco, le primarie non sono mai un preambolo dello scontro finale. È vero, hanno confermato Biden come il favorito, ma chi vota alle primarie è l’elettorato core dei democratici. Per vincere a novembre bisogna andare oltre questa cerchia, convincere gli indecisi.

Ad esempio?

Michigan, Pennsylvania, Ohio, Florida, North Carolina. La vera domanda è: Biden può essere un candidato più forte di Sanders in questi Stati? È qui che si giocherà la partita decisiva. Così come in Europa, anche in America, e soprattutto in aree industriali come Detroit, Cleveland, Pittsburgh, per decenni i democratici hanno sofferto un’emorragia di voti fra le classi lavoratrici. Non basterà fermarla, serve riconquistare gli elettori persi.

Anche quelli che hanno votato Trump nel 2016?

Temo che per quelli sia troppo tardi, non torneranno all’ovile. La chiave di volta per conquistare la Casa Bianca, sigillare il Congresso e recuperare i collari blu è nell’elettorato giovane. Sanders in questo è più bravo di Biden, ci mette più entusiasmo. L’ex vicepresidente deve scrollarsi di dosso l’immagine dell’establishment, delle vecchie ricette.

Il Partito democratico l’ha capito?

Ci sono tre constituences, con tre obiettivi diversi. Da una parte l’establishment del partito, che, più ancora di una sconfitta contro Trump, teme di essere catturato dai democratici radicali di Sanders. Dall’altra un vasto fronte di influenti personalità dell’Asinello, che danno priorità a un cambio ai vertici del partito rispetto alla vittoria su Trump. In mezzo ci sono gli elettori di centro-sinistra, che più di tutto vogliono battere Trump.

Chi avrà la meglio?

Siamo di fronte a un caso di scuola della scienza politica, un trilemma. Puoi avere due cose insieme, non tutte e tre. La mia impressione è che, chiunque voglia vincere contro Trump, deve cambiare l’establishment. Bill Clinton e Barack Obama ci sono riusciti, Hillary Clinton no. Per farlo, Biden deve puntare tutto sui più giovani. Che trovano Trump terribile, ma trovano ancora più terribile la stagnazione e la disoccupazione che la globalizzazione ci ha regalato.

Trump ora tifa Biden o Sanders?

Credo che Trump abbia dormito bene stanotte. Che fosse preoccupato di Biden lo sappiamo tutti dopo aver letto gli estratti delle telefonate con il governo ucraino. Ma in poche settimane le cose sono cambiate, e l’ascesa di Sanders lo ha preoccupato. Ha appeal sui giovani, e non ha il crisma dell’establishment.

Veniamo ai grandi sconfitti. Partiamo dal più clamoroso: Michael Bloomberg. È andata peggio delle più nere aspettative.

Sicuramente è andata peggio di quanto lui si aspettasse. Ho lavorato a lungo a New York quando lui era sindaco. Devo dire che sono rimasto sorpreso dalla rabbia e dalla violenza che hanno accolto la sua entrata in questa corsa. Con il motto “io ho il denaro e voi no”, ha dato l’impressione di volersi “comprare” la maggioranza del partito, diffondendo l’immagine del miliardario arrogante, ex repubblicano, che offende il cuore dell’elettorato democratico, a partire dalla comunità afroamericana.

Poi c’è Elizabeth Warren, che ormai è fuori dalla corsa, nonostante i pronostici.

La discesa è iniziata quattro, cinque mesi fa, quando Khamala Harris ha lasciato la campagna. Da lì Warren ha commesso un errore dopo l’altro. Era una candidata radicale almeno quanto Sanders, ma a differenza sua godeva di buoni rapporti con il partito. Ha scelto di spostarsi verso il centro, cambiando posizione sul Medicare. Pessima mossa, pessimo tempismo.

Ora che fine faranno i suoi voti?

È una partita che può fare la differenza. Quattro anni fa, quando lo scontro interno al partito si è ridotto a un testa a testa fra Clinton e Sanders, lei ha convogliato i suoi voti sulla Clinton. Farà lo stesso con Biden, in nome dell’unità. E a quel punto per Sanders ci sarà poco da fare.

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