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Attentati terroristici ed epidemie sono le più efficaci dimostrazioni di ciò che intendeva Marshall McLuhan con l’espressione “villaggio globale”. Con i media digitali (evoluzione di quelli che il massmediologo canadese chiamava media elettrici), il mondo si fa piccolo, fino a diventare un unico villaggio. Ciò significa che uno degli effetti più importanti e significativi della globalizzazione è di tipo psicologico-cognitivo. Abbattendo tempi e spazi, tutto ciò che accade può avere ripercussioni ovunque nel globo, purché abbia “copertura mediatica”.

Dato che attentati terroristici ed epidemie sono per loro natura argomenti decisamente notiziabili, è scontato che essi riempiano l’agenda mediatica con maggiore intensità (tutti i media ne parlano, simultaneamente) e durata (ormai mediamente le notizie deperiscono nel giro di qualche ora, ma quelle no) rispetto a quasi tutte le altre tematiche rilevanti per l’opinione pubblica.

Questa premessa basterebbe a spiegare il pericolo dell’infodemia, ossia la propensione a ingigantire la percezione del fenomeno e della sua pericolosità – cosa che avviene per tutte le tematiche spesso presenti nell’agenda dei media, come ad esempio immigrazione e sicurezza. Una “realtà aumentata” dal percepito, ma con conseguenze reali.

Tuttavia, occorre aggiungere un’aggravante di tipo culturale. Noi siamo la società più individualizzata, narcisistica e psicologica di sempre. La prima società che, a furia di liberarsi dai “falsi miti e false credenze” e dalle “catene” dell’ancien regime ha eroso praticamente tutte le credenze stabili: dalle religioni, alle ideologie, fino al sapere e alla scienza. E le credenze stabili sono bussole che aiutano interpretare il mondo, a cementare le comunità e a difendersi dalle paure… Senza quelle bussole e senza le comunità “solide” (per dirla con Zygmunt Bauman), il mondo finisce per essere psicomorfo ed egocentrato. Ciò che conta sono solo Io. Nessuno può più promettermi una felicità ultraterrena (non ci credo più) e nessuno può più promettermi una felicità terrena derivante da una società perfetta che un giorno arriverà (non ci credo più). Ergo, resto solo. Unico responsabile della mia felicità, che deve arrivare “qui e ora”, perché “del doman non v’è certezza”, dato che non credo più in coloro che me la propinano procrastinata nel tempo. E spesso anche unico custode e interprete della verità, per la medesima ragione, ossia lo scetticismo verso qualsiasi autorità cognitiva che non la pensi come me.

Questa transizione culturale verso il narcisismo e l’egocentrismo per autodifesa è il vero motore dell’infodemia. Ed è, peraltro, la ragione principale per cui certe notizie siano più notiziabili di altre. Il mercato dei media – noi tutti – è più sensibile che mai alle informazioni legate alla salute e alla sopravvivenza, perché mai come oggi siamo stati “terrorizzati” – è il caso di dire – dalla paura di morire (infelici).

Nel film “Il dormiglione”, Woody Allen riassume benissimo questo fenomeno in un breve dialogo tra i protagonisti, Luna e Miles:

Luna: Tu non credi nella scienza. E non credi nelle politiche fondate sul lavoro. E non credi neanche in Dio, eh?
Miles: Vero.
Luna: E allora, in che cosa credi?
Miles: Nel sesso e nel decesso, due cose veramente fondamentali nella vita.

Sesso e decesso, eros e thanatos: vivere il più a lungo possibile e spassarcela. Godendo di un eterno presente ricco di gratificazioni immediate e allontanando il più possibile il momento in cui questa “felicità paradossale” (Gilles Lipovetsky) finirà. Paradossale perché irraggiungibile, dato che ogni istante ricco di dopamina cancella il precedente e fa spazio per il prossimo, in una ricerca infinita che poi è il motore della società dei consumi.

In una società individualizzata non c’è più spazio per chi rimette al “buon Dio” il momento della sua fine terrena, né al fatalismo, né per chi creda fermamente in una comunità terrena (scientifica o politica) che sia in grado di salvarci. Siamo soli, ci percepiamo come tali, e dunque siamo iper-attivati sul fronte dell’autoconservazione e dello spirito di sopravvivenza.

Questa ragione più profonda, connessa alla nostra transizione antropologica, figlia del consumismo e sovralimentata dall’infosfera digitale, è il vero motore dell’infodemia.

Ecco perché non è facile limitare o “calmierare” gli effetti infodemici. Se anche i media – andando contro i propri interessi – si limitassero a diffondere solo i pareri degli esperti, comunque manterrebbero in agenda il tema. E se anche gli esperti ci dicessero in coro: “State tranquilli e limitatevi a lavarvi le mani e a starnutire nel gomito” (!) in ogni caso genererebbero l’effetto Lakoff, chiamiamolo così. “Non pensate all’elefante” ha un’unica conseguenza: pensiamo tutti all’elefante.

Siamo la società degli sciami, spaventati perché fatti di “atomi” disorientati (e conseguentemente creduloni). La psicologia delle folle è il tratto più evidente della società della conoscenza. Di conseguenza il contagio prima che virale è psicologico: il panico corre in tempo reale, non ha bisogno di starnuti o strette di mano.

Non ci resta che attendere che l’emergenza finisca, come è avvenuto per la Sars, la Bse, l’aviaria. Epidemie terminate quando sono sparite dai titoli dei giornali, ça va sans dire.

L'elefante e l'infodemia. Perché è difficile limitare gli effetti

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