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Un alto funzionario politico da Tel Aviv ha detto all’Israel Hayom domenica che “la risposta all’attacco (subito da Israele, ndr) sarà tale da indurre l’Iran a riconsiderare il suo desiderio di entrare in un conflitto prolungato”. Un anno dopo l’attacco di Hamas che ha aperto l’attuale stagione di guerra nella Striscia di Gaza, siamo qui: sull’orlo di un conflitto regionale, Israele valuta come reagire al secondo, storico bombardamento diretto subito per opera dell’Iran, dopo oltre 40mila morti palestinesi, l’apertura del fronte settentrionale con il Libano e l’eliminazione di una serie di figure apicali dell’Asse della Resistenza che ha chiamato in causa direttamente la rappresaglia iraniana. Tra queste, ora si pensa che il comandante del Sepah, Esmail Qaani, possa essere rimasto ucciso in un raid aereo a Beirut, dove si trovava per offrire il commiato dei Pasdaran dopo l’eliminazione israeliana del leader spirituale di Hezbollah, Hassan Nasrallah (ed è quasi superfluo dire che sarebbe un altro colpo clamoroso inferto a Teheran e all’Asse, coordinato proprio dal corpo teocratico della Repubblica islamica).

I funzionari del Pentagono dicono al New York Times di essere preoccupati che Israele stia conducendo una campagna sempre più aggressiva contro Hezbollah in Libano, sapendo che il rafforzamento militare americano nella regione è pronto ad aiutare a smorzare qualsiasi risposta iraniana. Ma l’amministrazione Biden, a meno di un mese dal voto per Usa2024, vuole evitare stravolgimenti in un dossier — il Medio Oriente — non amatissimo dagli elettori. Per altro, Washington piuttosto che una guerra regionale potrebbe voler utilizzare la situazione a proprio vantaggio e approfittare dell’oggettiva debolezza di Hezbollah per dare un colpo di assestamento alla situazione politica interna al Libano, da lungo tempo senza stabilità istituzionale. Ma il rischio, come dodici mesi fa, resta il possibile deflagrare di un conflitto regionale-internazionale, che diventa più vicino ogni volta che Iran e Israele si scambiano colpi incrociati. Questa fotografia della situazione potrebbe infatti essere rimodellata tra poche ore o giorni, a seconda di come Israele reagirà contro l’Iran.

“Dopo un anno abbiamo più violenza e abbiamo una guerra che ormai si è spostata su altri fronti: da Gaza si combatte ormai in Libano, Yemen, Siria e Iraq, e potenzialmente Iran. E sono tutti fronti segmentati che potrebbero anche sopravvivere indipendentemente l’uno dall’altro”, spiega Giuseppe Dentice, responsabile del Mena Desk del CeSI, che sin dalla mattina del 7 ottobre 2023, ogni mese, accompagna Formiche.net nell’analisi di quanto sta accadendo. Il grande elemento di novità introdotto è questa serie di conflitti che vivono una realtà autonoma, sebbene correlata. “Ma questo — continua Dentice — non deve farci dimenticare del valore reputazionale e identitario che la guerra a Gaza e il futuro della Cisgiordania hanno per Israele, perché è lì che si deciderà il destino dei palestinesi e degli israeliani”.

Per l’esperto del CeSI, il conflitto apre uno scenario nuovo dentro Israele (e nel rapporto con i palestinesi), ma anche nella regione. Si sta disegnando un nuovo equilibrio mediorientale, dove Israele percepisce se stesso come “un attore ineludibile”, e quanto succede — e succederà con la contro-reazione verso l’Iran — potrebbe ridefinire la mappa degli equilibri nella regione con gli antagonisti e con i partner o presunti tali. Di questo il CeSI si è occupato in uno studio in cui ha analizzato il “futuro incerto del Medio Oriente”, soppesando bilanci, prospettive e scenari politici e geoeconomico nella regione, dopo un anno di guerra.

“C’è da valutare scenari interni a Paesi come Egitto e Giordania dove la guerra ha aggiunto peso alle vessazioni socio-economiche che affliggono le collettività, con una retorica filo-palestinese interna e regionale che crea pressioni domestiche, le quali mettono ulteriormente a rischio la stabilità interna. Ma anche ai Paesi del Golfo, dove, al di là degli Accordi di Abramo, si deve ridefinire che rapporti vogliono avere con Israele. Per esempio, se per gli Emirati Arabi Uniti è più semplice anche perché il rapporto commerciale va a gonfie vele, per l’Arabia Saudita il rapporto con Israele presenta profonde criticità”. Perché? “Per le relazioni di Riad con Egitto e Giordania, per il ruolo del regno nel mondo arabo, perché da tempo cerca un avvicinamento a Israele che la guerra a Gaza ha reso più complicato, e ora deve capire dove e come posizionarsi”.

Ed è inevitabile che tutto questo ridefinisca la mappa del Medio Oriente, dunque. “Stiamo superando il totem di Camp David e ridefinendo tutti gli equilibri e i rapporti interni. Attenzione perché questo significa anche chiudere la lunga stagione dell’unilateralismo statunitense, aprendo a un multilateralismo sui generis, con attori portati a compiere scelte differenti in funzione di esigenze e ambizioni, in definitiva dei propri interessi. Ossia si apre una stagione di minore sicurezza e stabilità simile a quella che seguì la Guerra in Iraq o le Primavere arabe: siamo in definitiva davanti a un ‘nuovo mondo’ per il Medio Oriente”.

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