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Come accade solitamente nel nostro paese, un po’ su tutti gli argomenti seri, il dibattito pubblico sul Meccanismo Europeo di Stabilità (MES) sta assumendo contorni e toni grotteschi; tanto che, al netto del brusio politico, che in mano ai mezzi di amplificazione di massa diventa rumore assordante, pare impossibile ricostruire gli effettivi contenuti della vicenda.

Il MES, chiamato anche Fondo Salva-Stati, è uno degli strumenti della governance economica europea, ideato nel 2011 per affiancare (di fatto per sostituire) la European Financial Stability Facility (EFSF) creata dalla Commissione per il sostegno ai paesi in difficoltà. Mentre però l’EFSF era dotata di un bilancio limitato, nel MES sono stati messi dai governi nazionali 80 miliardi di euro, in grado di attivare un capitale complessivo (in caso di necessità) di 700 miliardi. Una capacità di fuoco obiettivamente in grado di affrontare, o almeno tamponare, in maniera credibile un problema finanziario serio che dovesse emergere in qualche paese, anche di grandi dimensioni. Purtroppo, per attivare questa potenza di fuoco, i paesi hanno deciso di creare una società privata ad-hoc, gestita da loro stessi, quindi con meccanismi intergovernativi, non comunitari; e di affidarsi ad una regola decisionale che si basa sulla maggioranza qualificata dell’85% del capitale (quindi con un diritto di veto dei tre paesi che possiedono una quota superiore al 15%: Francia, Italia e Germania).

Negli ultimi anni si è ipotizzato di utilizzare il fondo come base per gestire ulteriori competenze, come il cosiddetto backstop per il fondo unico di risoluzione, previsto nel quadro del percorso verso l’unione bancaria; ossia per garantire il salvataggio di qualche istituto di credito in caso di dissesto finanziario, nella logica che il sistema bancario europeo abbia una rilevanza strategica per l’intera economia continentale e che quindi vada tutelato a livello complessivo, in maniera solidaristica (cioè con le risorse di tutti) e soprattutto per scoraggiare speculazioni contro le banche.

Per adattare il MES a questo scopo occorreva però modificarne lo statuto. Da qui l’apertura di un negoziato per la riforma del MES che va avanti ormai da oltre un anno. A dicembre 2018 (quindi sotto il Governo giallo-nero Conte I, con Di Maio e Salvini) erano state ipotizzate le prime variazioni, sulla base delle quali si è arrivati poi al compromesso del giugno scorso (sempre Conte I), che andrà a ratifica il mese prossimo (quindi col Governo Conte II).

Il fatto che si tratti di un ‘negoziato’ fa si che vi siano state al tavolo parti con opinioni fra loro non necessariamente convergenti. Tanto è vero che i paesi nordici avevano proposto clausole inaccettabili: un sistema di valutazione della sostenibilità del debito da affidare interamente allo staff tecnico del MES, quindi un’ipotesi che avrebbe lasciato la sorveglianza macroeconomica nelle mani di un organismo privato; ed un haircut (ristrutturazione del debito) per poter accedere all’assistenza del MES. Un’ipotesi quest’ultima evidentemente demenziale (anche sotto il profilo prettamente teorico), perché avrebbe incentivato comportamenti destabilizzanti sui mercati finanziari, creando occasioni di speculazione che tendono ad autorealizzarsi. Invece di adottare queste clausole, si è concordato (giustamente) che l’assistenza finanziaria possa essere erogata solo sulla base della sostenibilità del debito (e ci mancherebbe altro! Nessuno presta denaro ad un debitore non solvibile), ma che la valutazione sia affidata ad un esame congiunto del MES e dei singoli paesi, con la Commissione Europea a fungere da arbitro in caso di opinioni divergenti; e meccanismi più semplici per una eventuale ristrutturazione del debito sovrano (anche su questo è difficile non concordare).

In definitiva, il compromesso raggiunto consente di raggiungere l’importante risultato del backstop per il meccanismo unico di risoluzione dell’unione bancaria, anche se non per il fondo di assicurazione sui depositi, che certo aiuterebbe maggiormente i cittadini a percepire l’utilità diretta di queste ingegnerie finanziarie sulla propria quotidianità, visto che sarebbe l’Europa, non più i singoli governi, a restituire il capitale depositato in banca, in caso di fallimento. Naturalmente l’Italia può esercitare il diritto di veto su questa riforma, ma essendo impensabile (e stupido, contro i nostri stessi interessi) rigettarla (vista la fragilità del nostro sistema bancario), dovrebbe avere le idee chiare su cosa negoziare in cambio.

La vera questione cruciale per il nostro paese è quindi la seguente: visto che non riusciamo a finanziare gl’investimenti necessari per la crescita sul bilancio nazionale (date le nostre pregresse e continue accumulazioni di debito pubblico che non lasciano margini di manovra alla spesa) sarebbe per noi fondamentale potenziare gl’investimenti a livello europeo, magari proprio attraverso la trasformazione del MES da fondo/società privata in un vero e proprio Fondo Monetario Europeo, gestito da un Ministro delle Finanze europeo in qualità di Vice-Presidente della Commissione e Presidente dell’Eurogruppo, responsabile verso il Parlamento Europeo delle scelte di raccolta e destinazione delle risorse finanziarie (secondo le proposte già avanzate dalla stessa Commissione UE nel dicembre 2017).

Quello che dobbiamo chiederci allora è se la battaglia per la riforma del MES possa essere funzionale a quella per un bilancio europeo (o dell’eurozona) per la crescita. Potremmo allora forse utilizzare l’ipotesi di esercitare il diritto di veto sul MES per negoziare il bilancio dell’eurozona, o almeno per avvicinarci a quell’obiettivo. E il dibattito smetterebbe di avere i toni surreali che ha assunto in questi giorni per diventare oggetto di una strategia negoziale concreta per il futuro del paese.

Un dibattito surreale

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