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Alla fine Ferrovie dello Stato ha preso la decisione giusta, riducendo a quattro la compagine futura di Alitalia. Giusta nel senso di razionale, giusta nel senso di male minore però. Già, perché se è certamente apprezzabile lo sforzo di semplificazione messo in atto dall’amministratore delegato Battisti e dal suo Cda, non ci pare ragionevole pensare che la soluzione trovata (e fortemente sponsorizzata dal governo e dal ministro Di Maio) sarà in grado di risolvere la situazione.

Mai come in questo caso sarebbe auspicabile sbagliarsi (perché tutti vorremmo un futuro radioso per Alitalia), purtroppo però le evidenze internazionali non sono confortanti: ora vediamo perché.

Punto primo: quella messa in atto è (sostanzialmente) una nazionalizzazione. Lo Stato cioè sarà non solo azionista di primario livello (lo sono anche il governo francese e quello olandese in Air France – KLM) ma sarà dominus assoluto della situazione, disponendo della maggioranza del capitale nella combinazione Mef e FFSS. Ebbene questo vuol dire tornare al passato (Alitalia nasce come azienda pubblica) in un mondo però totalmente cambiato e sottoposto a una concorrenza internazionale micidiale, esattamente la condizione meno adatta ad un’impresa a prevalente capitale pubblico.

Punto secondo: l’operatore esperto del settore (Delta Airlines) non sarà mai lasciato libero di agire, in quanto socio di minoranza. Infatti Delta resta a bordo per due ragioni essenziali che sono presto dette: la tutela dalla sua posizione dominante sulle tratte da e per gli Usa nel consorzio Sky Team (di cui Alitalia fa parte) e la volontà di impedire un’azione di approdo in Alitalia di altri competitor, Lufthansa in primis. È però evidente che l’impostazione americana (il settore ha conosciuto negli States una concorrenza durissima che ha causato la fine di molte compagnie, lasciando in campo due grandi colossi cioè American Airlines e, appunto, Delta) non sarà applicabile, perché innanzitutto basata su drastica riduzione dei costi di personale.

Punto terzo: il ruolo di Atlantia è un tale intreccio di ambiguità e (potenziali) conflitti d’interesse da rendere l’equilibrio assai precario. Ciò non solo per le vicende del ponte Morandi, ma per due motivazioni strettamente di carattere industriale che vanno subito rese evidenti. La prima è che il gruppo ha la sua più importante fonte di ricavi (e di utili) nella gestione di una vasta rete autostradale in regime di concessione, quindi tutto è tranne che un soggetto abituato ad operare in regime di concorrenza. La seconda è che Aeroporti di Roma ha in Alitalia il suo cliente più importante, elemento che quindi renderà molto più difficili scelte manageriali di vantaggio per altri scali (con inevitabile riduzione dello spazio di manovra del management).

Infine (e il quarto punto), c’è una sinergia treni/aerei tutta da inventare, che non può certo ridursi a politiche di ticketing (peraltro realizzabili a prescindere): non a caso nessun paese occidentale ha utilizzato sin qui questo modello di governance con l’azienda di Stato delle Ferrovie nel ruolo di leader operativo nella compagnia di bandiera (anche perché in Alitalia occorrerà investire tanti soldi nei prossimi anni).

Insomma adesso abbiamo quattro carte (cioè i nuovi soci), ma quasi certamente non faranno poker.

Alitalia: quattro soci, ma non fa poker

Alla fine Ferrovie dello Stato ha preso la decisione giusta, riducendo a quattro la compagine futura di Alitalia. Giusta nel senso di razionale, giusta nel senso di male minore però. Già, perché se è certamente apprezzabile lo sforzo di semplificazione messo in atto dall’amministratore delegato Battisti e dal suo Cda, non ci pare ragionevole pensare che la soluzione trovata (e…

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