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La tarda epoca moderna, nel nostro Occidente, può essere considerata come un mix di disincanto e razionalizzazione, e in questo senso può ben considerarsi erede dell’Illuminismo, che ha in un certo senso radicalizzato e portato a compimento. L’uomo tardo-moderno non crede più a nulla al di fuori della propria libertà, a nulla di trascendente. Tuttavia, per compensare questo deficit e questa mancanza, tende continuamente a imbavagliare la multiforme realtà in regole, norme, direttive più o meno astratte.

So bene che altri hanno parlato di “società liquida”, ma è pur vero che il continuo passare degli uomini e delle società da una forma di vita all’altra tende ad essere sempre regolata e normata, oltre ad avvenire all’interno di perimetri ben definiti. L’attività di normazione, che chi scrive considera in sé tendenzialmente illiberale perché comprime l’umana libertà e creatività, avviene oggi soprattutto attraverso l’azione di una élite globale che opera in primo luogo nelle organizzazioni sovranazionali. È una élite che ha una medesima cultura, ha avuto una stessa formazione (per lo più nelle maggiori università anglo-americane), ragiona e ha degli schemi mentali simili. Per essa ogni uomo è del tutto slegato da appartenenze e da tradizioni e deve agire, proprio come volevano gli illuministi, seguendo solo la propria ragione e regole di astratta universalità. L’ideale ultimo è quello illuministico del cosmopolitismo. Ma per intanto le identità possono essere riconosciute ed esistere, ma solo nella misura in cui, sottratte da ogni humus storico e da ogni fattualità, siano riconosciute, approvate, inserite in un circuito razionale e “non discriminate” (è questo l’ideale ultimo del cosiddetto “multiculturalismo”).

L’individuo, in quanto tale, viene perciò concepito in modo del tutto disincarnato, come un mero titolare di “diritti” e come un soggetto di scambio al di fuori di ogni comunità, appartenenza, tradizione, che lo individui e renda appunto concreta la libertà che gli è propria. L’ideale cosmopolita tende a concepire in ultima istanza uno Stato unico, che qualora prendesse piede avvalorerebbe le più cupe utopie negative (non uso il termine “distopia” perché aborro le parole “di moda”) di orwelliana memoria. Ad esso si assocerebbe di fatto un pensiero unico, astrattamente universale, “totalitario” in modo soft, di fatto “escludente”, come è quello che ha già corso ed è dato vedere in certi campus americani (e pensare che le università erano nate proprio per coltivare il pensiero libero e “difforme”!).

La via dell’omologazione e del conformismo terrebbe inesorabilmente dietro a quella della regolamentazione di ogni ambito di vita (favorita, come vedremo in una delle prossime puntate, dalle tecniche informatiche fondate sui big data e sugli algoritmi). Soprattutto, di fronte a questo Stato o sovra-Stato unico si ergerebbe un individuo senza radici, senza doveri, impegnato a soddisfare narcisisticamente i propri desideri, solo con la sua libertà che, slegata da ogni contesto di senso, si approssimerebbe paurosamente al nulla di senso del nichilismo compiuto. Un individuo apolide, fluido nel genere sessuale e in ogni impegno di vita, paurosamente simile alla bestia, per prendere in prestito una metafora dal grande pensatore e diplomatico francese Alexandre Kojève. Contro questo processo tendenziale, si sono mosse negli ultimi anni nuove élite che sono state spregiativamente definite dai mezzi di comunicazione mainstream (in mano alle élite sovranazionali) “populiste” e “sovraniste”. Esse, nelle loro contraddizioni e informità, che le fa essere chiaramente di “transizione”, hanno esaltato proprio le particolarità dei popoli e delle nazioni. A volte esagerando, facendo dell’identità qualcosa di chiuso e particolaristico che è un errore uguale e contrario a quello del cosmopolitismo. È chiaro che un punto di unione fra particolare e universale dovrà per forza prima o poi trovarsi. Ne va di mezzo la libertà umana.

Perché l’uomo senza identità non è veramente libero. Il futuro di Ocone

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