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Gli Stati Uniti sono nettamente sulla Libia. La conferma pubblica, certamente avallata dalle informazioni di intelligence, dell’incremento della presenza russa dietro al signore della guerra dell’Est, Khalifa Haftar, ha portato l’assertività americana a crescere di livello. Se quei mille mercenari inviati dal Cremlino dovevano essere un game changer per spingere l’offensiva haftariana contro il governo dell’Onu di Tripoli, l’obiettivo ottenuto è per ora l’opposto. Sebbene non è da escludere che aumentare il coinvolgimento americano in una situazione paludosa come la Libia non fosse un fine infimo della penetrazione russa. Su tutto, il Cremlino: il portavoce del presidente russo dice che si tratta solo di “bufale”.

Una delegazione di funzionari statunitensi è volata domenica a Bangasi per discutere gli step per il deconflicting direttamente con Haftar. A guidare il team americano c’era la vice direttrice del Consiglio di Sicurezza nazionale, Victoria Coates, che ha deleghe per gli affari nordafricani (e mediorientali) e in passato era nota per posizioni più assertive sul lato haftariano all’interno dell’organismo, ma le cose possono anche cambiare. Con lei l’ambasciatore per la Libia, Richard Norland, il vice assistente segretario per gli Affari internazionali del Dipartimento dell’Energia, Matthew Zais, e il numero due di Africom per la strategia e i programmi, il generale di brigata Steven deMilliano.

Norland ha visto separatamente anche Fayez al Serraj, il capo del Libya Presidential Council, il premier libico internazionalmente riconosciuto. L’ambasciata ha dichiarato che il motivo dell’incontro è stato lo sforzo “per trovare una soluzione politica al conflitto alla luce dell’escalation dell’intervento russo”.

A leggere il comunicato diffuso da Foggy Bottom sul meeting in Cirenaica c’è invece un dettaglio netto: non si parla di “discutere” un cessate il fuoco, ma di “discuter[n]e gli step”, ossia sembra che lo stop alle ostilità sia una punto acquisito e ora si debbano decidere i passaggi con cui renderlo operativo. Si vedrà. Di certo c’è che la situazione è stata nettamente aggravata dall’abbattimento di un drone di Africom su Tripoli. Azione che l’Esercito nazionale libico (Lna), la milizia dal nome ambizioso comandata da Haftar, s‘è intestata. Ma ha chiesto scusa: credevano fosse turco, ossia uno dei velivoli con cui Ankara aiuta la difesa-attiva di Tripoli — condotta prevalentemente dalle forze della città-stato di Misurata.

Se gli Stati Uniti si sono mossi con così solerte rapidità è anche per quello che può esserci dietro all’abbattimento (che, attenzione, non è stato confermato dagli Usa, dove si parla di incidente, ma solo dalle fanfare di Haftar). È possibile che quei contractor russi — la cui presenza preoccupa molto gli americani — si siano portati dietro dei sistemi per intercettare le frequenze di pilotaggio dei droni e farli schiantare. Si chiamano jammer, e visto che i primi di ottobre un drone turco ha individuato e bombardato i contractor di Mosca (pare uccidendone oltre trenta, ma niente è ufficiale), ora sono corsi ai ripari. Possibile che i sistemi siano arrivati insieme all’aumento degli operativi (operazione che li ha portati a raddoppiare a inizio mese, secondo informazioni diffuse da Bloomberg News: ora sono un migliaio).

D’altronde c’è un’amara coincidenza. Dopo che da anni droni occidentali compiono sulla Libia attività di intelligence praticamente indisturbati, addirittura col transponder acceso (e dunque con spostamenti pubblici, tracciabili online da chiunque) la scorsa settimana ne sono precipitati due. Quello americano e prima uno italiano. Anche se l‘Italia per ora non ha dato segni di proattività rapida come quella statunitense in risposta al grave incidente; ma d’altronde Haftar ha fatto in modo di scusarsi con gli Usa, mentre ha usato l’abbattimento del velivolo italiano come un vettore per avvelenare la sua retorica contro Roma.

La nota stampa del dipartimento di Stato dice anche un’altra cosa interessante: le discussioni con Haftar sono basate su incontri avuti col governo libico. Due settimane fa una delegazione di primo livello era a Washington e da quell’incontro ne uscì un secco comunicato con cui l’amministrazione chiedeva a Haftar di fermare i combattimenti. Questione di cui il segretario Mike Pompeo ha discusso anche col ministro degli Esteri emiratino a Washington pochi giorni fa.

Gli Emirati Arabi sono il principale sponsor della campagna haftariana, ma sono anche uno stretto alleato statunitense (relazione di cui hanno bisogno su diversi altri dossier, su tutti il confronto con l’Iran). È possibile che Abu Dhabi abbia accettato di far fermare le armi, e qualcosa di simile potrebbe essere stato ottenuto dall’Egitto, anche perché questi sostenitori di Haftar adesso, dopo sette mesi e con un‘offensiva che va a rilento, vogliono capitalizzate ai tavoli negoziali. Da ricordare che recentemente alla Casa Bianca c’era il presidente turco, e parte dei colloqui ha riguardato anche la Livia.

Gli Usa dunque hanno il pallino su varie parti del quadro complessivo, e stanno pressando queste (con cui hanno rapporti) per fermare la guerra visto che temono che la presenza velenosa russa possa trasformare la situazione in una nuova Siria, o in un altro Donbas. Questo coinvolgimento americano è il più importante lavoro preparatorio per la conferenza internazionale sulla crisi libica in programma a Berlino da cui dovrebbe uscire la via per la stabilizzazione politica e pacifica. Che però ha un percorso molto complesso.

La componente misuratina, che è forte sia sul piano militare che politico (ha molti esponenti di rilievo nel governo), non accetta che all’Lna vengano garantiti diritti e guadagni, e che Haftar possa essere un interlocutore nel futuro del paese, ci fa sapere una fonte di altro livello dalla città-stato che commenta in modo discreto le mosse Usa come una spinta positiva, che però deve tener conto che “Haftar è un aggressore”. Equilibrio intra-libico delicatissimo che viene prima degli interessi dei vari attori esterni.

La Libia nell’agenda Usa. L’incontro con Haftar per contenere la Russia

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