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Roma, Montecitorio. Matteo Salvini arriva alla Camera trafelato. C’è l’assemblea dei parlamentari della Lega, riunitasi mentre al Quirinale è già iniziato il via vai delle consultazioni per sondare l’esistenza di una nuova maggioranza. Qualunque sia la soluzione, il nuovo governo “sarà contro di noi” scandisce il leghista di fronte ai cronisti. Non c’è più la stessa prudenza nelle parole dell’ex vicepremier all’indomani dello scontro frontale con il presidente del Consiglio Giuseppe Conte al Senato. “Mi ha deluso – dice dell’avvocato pugliese che ieri sera ha rassegnato le dimissioni salendo al Colle – si è bruciato, lo molleranno anche i Cinque stelle“. Se una maggioranza rossogialla si troverà la Lega, promette il segretario scortato di fronte alle telecamere da tutta la squadra di deputati, “farà opposizione senza sconti”.

Poi esprime i suoi dubbi sulla viabilità di una accordo Renzi-Di Maio. E accenna per la prima volta a questioni che stanno a cuore dall’altra parte dell’oceano. Cioè agli Stati Uniti d’America, alleato storico che osserva da vicino in queste ore le turbolenze della Capitale. Un governo Pd-M5s, è il ragionamento di Salvini, non sarebbe visto di buon occhio da Washington DC. “Se dovesse arrivare una maggioranza ‘Ursula’, voglio vedere le reazioni di Washington – chiosa il leader del Carroccio. A qualcun altro invece una simile coalizione andrebbe a genio, aggiunge. Le reazioni di Pechino “sono già previste, i cellulari Huawei usciranno dai rubinetti”.

Nel ping pong di accuse reciproche entra prepotentemente in gioco il fattore estero. Complici le analisi di esperti internazionali che in questi giorni si sono susseguite a sollevare dubbi sul ferreo atlantismo di un eventuale governo di dem e pentastellati. Su Formiche.net si sono espressi in questa direzione decine di autorevoli voci, da Ian Bremmer a Carlo Pelanda, da Alberto Forchielli a Giulio Sapelli. I dubbi di Washington, hanno sottolineato in coro gli addetti ai lavori, non vertono tanto sulla postura atlantista dei due partiti quanto sull’eccessivo sbilanciamento in direzione Pechino che le due forze politiche hanno dimostrato una volta al governo. Il Pd, soprattutto con Renzi a palazzo Chigi, ha inaugurato una stagione di importanti operazioni finanziarie e commerciali delle aziende cinesi in Italia, anche nei settori critici del Paese, sia pur tenendo come bussola della politica estera il filo diretto con la casa Bianca di Barack Obama prima e Donald Trump poi. Più sofferti e altalenanti i legami intrecciati con gli americani dal Movimento Cinque Stelle, che ancora oggi rivendica come sua conquista la firma del Mou con il governo cinese per aderire alla Belt and Road Initiative nonché una politica più possibilista verso gli interlocutori del Dragone, soprattutto sulla partita del 5G.

Proprio su questa è intervenuto lunedì il dipartimento del Commercio Usa pubblicando una black list di Huawei che comprende il ramo italiano dell’azienda tech con base a Shenzen e il suo centro di ricerca a Milano. Un avviso non scontato nei tempi e nei modi che segnala la fermezza dell’amministrazione Trump sul dossier cinese e la scarsa disponibilità a fare sconti ai Paesi alleati che ignorano o lasciano senza risposta i moniti del governo federale.

Le parole di Salvini non devono certo indurre a pensare che il Dipartimento di Stato o l’ambasciata americana a Roma vogliano entrare nella contesa politica per la formazione del nuovo governo. Non c’è nessun indizio in questo senso né i diretti interessati hanno espresso ufficialmente preferenze circa l’una o l’altra forza politica. C’è tuttavia da registrare un dato nuovo che può diventare chiave di lettura cruciale per le prossime settimane di crisi. Il posizionamento internazionale e la postura filo-atlantica dei partiti saranno linea divisoria fondamentale dei diversi programmi di governo e Salvini ha intenzione di farla valere nella partita in corso al Quirinale.

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