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Negli Stati Uniti li chiamano “major policy speech“, sono i discorsi con cui i leader di governo dettano le politiche generali da adottare su un determinato tema. Ieri il vicepresidente americano, Mike Pence, ha tenuto uno di questi interventi pubblici a proposito di Cina, il secondo in due anni. Il confronto tra potenze con Pechino è il più grosso tema di politica estera affrontato in questo momento da Washington – e con ogni probabilità lo resterà per diverso tempo, anche se l’amministrazione Trump dovesse perdere le elezioni di rinnovo il prossimo anno.

Pence ha parlato dal podio offertogli dal Wilson Center, think tank pubblico-privato collegato allo Smithsonian, di orientamento bilanciato, diretto da una deputata democratica e presieduto da un governatore repubblicano. Lo scorso anno aveva affrontato un discorso del tutto simile parlando all’Hudson Institute, di orientamento più conservatore. “Pechino non ha ancora adottato azioni significative per migliorare le nostre relazioni economiche”, ha detto Pence, “e su molte delle questioni che abbiamo sollevato, l’atteggiamento di Pechino è diventato ancor più aggressivo e destabilizzante”.

Reazione rapida dalla Cina: la portavoce del ministero degli Esteri, che in certe occasioni parla a nome di Partito e governo, ha attacco Pence per aver usato “un’ipocrisia arrogante”, ha chiesto agli Usa di “smettere di fare commenti irresponsabili” e di “guardare di più ai loro problemi interni”. Stanno giocando al poliziotto buono, poliziotto cattivo, ha detto, sottolineando che in quello che dice il vicepresidente “non c’è niente di nuovo”. Il governo cinese riprende l’apparente quadra trovata dai colloqui sul commercio, di cui il presidente Donald Trump ha sottolineato i passi positivi, e la mette in contrasto con le parole di Pence.

Se i trade talks sono le contingenze del momento, il discorso di Pence traccia una traiettoria strategica che difficilmente gli apparati statunitensi abbandoneranno per i prossimi anni e che è decisamente orientata a un confronto globale con la Cina. Il quadro è molto più ampio di un eventuale accordo commerciale. E il vicepresidente è passato su una serie di argomenti che fanno saltare i nervi a Pechino, perché sono testimonianze delle ambiguità con cui la Cina cavalca la leadership globale.

Questioni come la repressione delle dimostrazioni pro-democrazia a Hong Kong, su cui Pence ha fatto la più forte dichiarazione di un membro dell’amministrazione vista finora, dando sostegno aperto alle proteste. Oppure a favore del diritto di esistenza di Taiwan, paese con cui gli Usa stanno stringendo i rapporti, facendo aumentare il nervosismo di Pechino che la considera una provincia ribelle da riannettere anche con la forza.

O ancora la questione Xinjiang, oggetto di critiche aspre da varie parti della Comunità internazionali perché la Cina è accusata di compiere una sorta di rieducazione etnica per cancellare la minoranza locale musulmana, gli uiguri. Piccolo inciso: ieri, poco prima che Pence iniziasse il suo discorso, il Parlamento europeo ha annunciato di aver deciso di affidare il Premio Sakharov 2019 al leader uiguro Ilham Tohti, economista incarcerato da cinque anni in Cina sotto condanna per separatismo. Tohti, che sta scontando l’ergastolo, è una figura “moderata e conciliante”, ha detto il presidente dell’Europarlamento, David Sassoli, alzando la voce di Bruxelles su un tema che Pechino considera scottante.

Il Dragone detesta infatti che queste incongruenze vengano messe in mostra, ma sono un argomento che sta sempre più interessando la trattazione del paese dagli Stati Uniti. Dove si stigmatizza quando i silenzi sul non rispetto dei diritti umani in Cina si abbinano a questioni di interesse – spingere il business è invece il metodo con cui la Cina compra il silenzio politico di molti paesi. Pence nel suo discorso ha per esempio criticato pesantemente la Nike per aver rimosso i prodotti degli Houston Rockets dai negozi in Cina. Una decisione presa dalla ditta dopo la bufera scatenata dal tweet del direttore generale della squadra di basket, Daryl Morey, a sostegno delle proteste pro-democrazia di Hong Kong.

La Nba, ha aggiunto Pence, ha agito come fosse “controllata del tutto” dal “regime autoritario” cinese: i giocatori Nba, dice, “non mancano occasione di criticare il governo americano ma perdono la voce con la Cina”. “Non solo silenziosi di fronte all’aggressione economica e agli abusi sui diritti umani della Cina, lo hanno anche permesso”, ha detto poi Pence a proposito dei politici americani che l’hanno preceduto. “Gli Stati Uniti non vogliono lo scontro con la Cina. Vogliamo un campo di gioco bilanciato, i mercati aperti, un commercio equo e il rispetto dei nostri valori”.

Diritti umani. Il monito (tostissimo) di Mike Pence alla Cina

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