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E all’alba del settimo giorno (dall’inizio della sollevazione popolare) anche i patriarchi libanesi hanno capito che seguitare a riposarsi non era opportuno. Il Libano richiede da una settimana un nuovo sistema, vuole archiviare i corrotti signori del feudalesimo confessionale che hanno dissanguato le casse dello Stato nel nome di un ordine miliziano asservito a interessi stranieri che si chiamano confessionalismo sunnita, cesaropapismo cristiano e revanscismo sciita. Tutto questo non ha più nulla da dire ai libanesi, che rivendicano il diritto di diventare cittadini di uno stato laico e sovrano.

Con enorme ritardo i patriarchi lo capiscono, vedono che non possono rimanere con i signori del fallito ordine feudale, ma devono trovare un linguaggio comune con il loro popolo. E farlo dalla sera alla mattina non è facile. Loro non sono Francesco, che ha saputo parlare con categorie globali agli arabi firmando la dichiarazione di Abu Dhabi sulla fratellanza. Loro quel linguaggio non lo conoscono, i loro documenti sono da sempre ripieni di invocazioni particolaristiche, homus occidentalis e homus Islamicus ad esempio. Non avendo creduto per un minuto nella Primavera non hanno creduto mai in quello che sta muovendo la piazza libanese di ogni confessione.

Così di buon’ora hanno deciso di riunirsi in questo settimo giorno di sfratto popolare al governo, per allontanarsi dai capi tribali, dai vecchi clienti dei palazzi del potere, ma senza trovare le parole per avvicinarsi al popolo. Hanno chiesto al governo di consultarli per uscire dal vicolo cieco, ma non hanno saputo interpretare la voglia di cambio di paradigma del Paese. E infatti quando si è trattato di riconoscere che il “popolo vuole la caduta del regime” sunnita, sciita, cristiano, non sono riusciti a distanziarsi dai vecchi riti identitari e hanno riconosciuto il diritto dei cittadini, ma “alla libertà di movimento stradale”.

Un incredibile autogol delle loro beatitudini, ferme a un’idea di cittadino automobilista, non altro. Epperò per togliere i blocchi stradali non basterà l’esercito, né le milizie, neanche Hezbollah può riaprire le arterie del vecchio sud sciita. Per farlo serviranno i giovani, servirà la società civile, servirà cioè il Libano che loro non conoscono ma che dovranno sbrigarsi ad accettare che esiste come insieme di individui e non di gruppi autoreferenziali e chiusi. I gruppi che il Libano ha mandato in soffitta e che parlano la lingua globale dei fratelli e figli di un unico di Dio. Dunque inconsapevolmente i patriarchi hanno ammesso nel settimo giorno che il paradigma di Aoun, Hezbollah e congreghe varie non esiste più, incapace financo di riaprire le strade del Libano, il cui popolo come disse Giovanni Paolo II , torna a farsi messaggio.

Su di loro sembra svettare l’immagine fortissima di quell’ulema sciita che è uscito per strada, ha salutato le sue gerarchie e ha raggiunto i manifestanti: sciiti come lui, ma lontani anni luce dai riti miliziani di Hezbollah.

Libano, la sfida della cittadinanza ora riguarda anche i patriarchi

E all’alba del settimo giorno (dall’inizio della sollevazione popolare) anche i patriarchi libanesi hanno capito che seguitare a riposarsi non era opportuno. Il Libano richiede da una settimana un nuovo sistema, vuole archiviare i corrotti signori del feudalesimo confessionale che hanno dissanguato le casse dello Stato nel nome di un ordine miliziano asservito a interessi stranieri che si chiamano confessionalismo…

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