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Un intervento duro, implacabile e, per molti versi, opinabile.

Ma soprattutto un intervento che suona come monito vigoroso per i sovranisti di casa nostra, in particolare per Matteo Salvini e Giorgia Meloni (in particolare per il primo).

Orbán ha fatto due cose essenziali nei 90 minuti trascorsi sotto il tendone montato sull’Isola Tiberina: ha ribadito la sua irriducibile opposizione all’idea multiculturale dell’Europa (tanto cara alle sinistre) e alle relative élite che la sostengono (Soros in primis) ma ha però chiarito (ed ogni riferimento a Salvini è stato voluto e meditato) che per questa lotta serve stare dentro le istituzioni europee, dentro i gruppi politici che ne guidano le dinamiche essenziali, dentro le riunioni in cui si prendono le decisioni (anche quando sono sbagliate).

Il premier ungherese non ha fatto sconti a nessuno ovviamente, men che meno alla sinistra continentale (post comunista e non) cui ha riservato bordate dal primo all’ultimo minuto, accusandola di perseguire insistentemente l’invasione dell’Europa da parte degli immigrati mussulmani a scopo elettorale.

Così come ha duramente criticato la prevalenza nei media delle opinioni “liberal”, a suo dire alleati perfetti della sciagura globalista e mondialista.

Ma questi sono gli aspetti già noti del premier ungherese, aspetti tutt’altro che condivisibili in toto ma che ci porterebbero altrove nella riflessione.

La novità è nella sua critica sferzante al sovranismo di casa nostra, implicitamente accusato di avere sbagliato calcoli, alleanze e parole d’ordine.

Per capire sino in fondo usiamo il ruolo assegnato da Orban a due donne di prima grandezza del firmamento politico europeo, vale a dire Marine Le Pen e Ursula von der Leyen (non a caso francese la prima e tedesca la seconda).

Bene, la prima non è mai stata citata in un’ora e mezza di vulcaniche dichiarazioni, nelle quali ci sono state parole per tutti i protagonisti della scena mondiale.

Già perché l’Orbán che governa da dieci anni nel suo Paese è feroce difensore dell’identità nazionale (nella versione “cristiana” a lui cara, che non è l’unica possibile) ma non per questo è pronto a negare ogni valore alla dimensione europea, come si conviene peraltro ad un leader politico che tiene (pur con discrete tensioni) il suo partito Fidesz all’interno del Ppe.

E così per la von der Leyen arriva una forte apertura di credito (gli ungheresi hanno votato a suo favore il 16 luglio), con tanto di apprezzamento per la volontà di istituire una delega della Commissione UE per la tutela dello stile di vita europeo.

Ma c’è di più, molto di più.

C’è l’esplicito apprezzamento per la lungimirante (ma a suo tempo perdente) linea tenuta da Berlusconi sulla Libia al momento della scellerata offensiva militare franco-americana e c’è, soprattutto, il tono generale del suo discorso, figlio di una pratica quotidiana della “destra di governo” che è ben altra cosa di quella perennemente all’opposizione (cioè il modello Le Pen).

Insomma l’Orbán visto all’opera ieri ha menato forte sugli avversari (suoi) di una vita, ma ha servito scapaccioni anche ai suoi alleati italiani.

Il tendone l’ha accolto con entusiasmo, fino a cantare a squarciagola “I ragazzi di Budapest”, mitica (a destra) canzone che celebra le resistenza contro l’invasione sovietica del ’56 (parole di Pier Francesco Pingitore): è il segno più tangibile che a destra c’è voglia di discutere.

La padrona di casa Giorgia Meloni ha fatto buon viso a cattiva sorte, forte del fatto però di aver già fatto un grosso passo avanti, visto che l’anno scorso c’era Steve Bannon al posto di Orbán.

Resta da capire l’atteggiamento di Salvini, le cui mosse sono sotto la lente d’osservazione di tutta Europa.

Orbán all'attacco. Ma dei sovranisti italiani

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