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È crisi profonda tra Stati Uniti e Turchia. La tensione è aumentata vertiginosamente negli ultimi giorni, scalando con rapidità i gradini del potere e giungendo a un passo dal massimo livello istituzionale, quello che porterà i due presidenti, Donald Trump e Recep Tayyip Erdogan, a trattare la questione in prima persona, scenario che pare ormai inevitabile. Il problema è sempre lo stesso: l’acquisto da parte di Ankara del sistema missilistico russo S-400 (il cui arrivo è dato ormai per imminente) e la conseguente estromissione del Paese dal programma F-35 voluta da Washington. Oltre i sistemi d’arma, il nodo è però strategico, destinato a determinare lo scivolamento o meno della Turchia nelle braccia di Vladimir Putin.

LE PAROLE TRA I MINISTRI DELLA DIFESA

Il dossier è attualmente nelle mani dei due ministri della Difesa, il capo del Pentagono Patrick Shanahan e il collega turco Hulusi Akar, tra cui è prevista (stando al fronte turco) una telefonata domani. Poi, ci sarà il probabile faccia a faccia alla fine del mese. Proprio mentre Erdogan e Trump saranno al G20 giapponese, i due ministri si ritroveranno infatti per la riunione periodica a Bruxelles con i colleghi della Nato. Non a caso, l’Alleanza Atlantica è stata richiamata in causa da Akar nelle parole con cui ha risposto, oggi, alla lettera che Shanahan gli ha spedito qualche giorno fa. Nella missiva era contenuto l’ultimatum: o Ankara rinuncia all’S-400, oppure i piloti e i tecnici turchi attualmente negli Usa (circa una quarantina) per addestrarsi sui caccia di quinta generazione dovranno lasciare il Paese entro il 31 luglio.

I PILOTI TURCHI NON SI ADDESTRANO A LUKE

Un ultimatum che Akar ha ritenuto “non in linea con lo spirito dell’alleanza tra Turchia e Usa”, tra l’altro da aggiungere all’avviso di sospensione di tutte le consegne di velivoli ancora da effettuare, vale a dire 96 sui 100 velivoli previsti, dato che quattro sono già stati consegnati. Nel frattempo, sulla scia delle parole di Shanahan, è già arrivata l’interruzione dell’addestramento sull’F-35 per i turchi per la base di Luke, in Arizona, dell’Aeronautica americana. A confermare le indiscrezioni di stampa è stato il tenente colonnello Mike Andrews, portavoce del Pentagono: “Il dipartimento è consapevole che i piloti turchi di Luke AFB non stanno volando: senza un cambiamento nella politica turca, continueremo a lavorare a stretto contatto con il nostro alleato turco per terminare la loro partecipazione al programma F-35”.

MARGINI DI RECUPERO?

Da Ankara i segnali sono sempre gli stessi. L’accordo con Mosca per il sistema S-400 “è già fatto e siamo determinati a portarlo avanti”, ha confermato la scorsa settimana Erdogan. Parallelamente, però, resta la preoccupazione di uscire concretamente dal Joint Strike Fighter, velivolo su cui la Turchia ha puntato per il futuro del proprio potere aereo e per le note ambizioni di potenza più che regionale. Per questo, i vertici della Difesa turca inseriscono nelle loro proteste per le decisioni americane riferimenti all’alleanza storica, nonché auspici di poter risolvere la questione. Da Washington però resta un muro più che comprensibile: il russo S-400 non è integrabile con i sistemi Nato e rappresenta anzi un rischio in termini di operatività delle capacità alleate e della possibilità di far finire nelle mani di Mosca preziose informazioni sugli assetti occidentali. Da parte sua, la Russia attende a braccia aperte il definitivo scollamento tra Ankara e Washington. I media di Mosca a diffusione globale rilanciano costantemente notizie di militari turchi in addestramento in Russia sull’S-400 o sulla possibilità che scelgano i caccia Sukhoi Su-57 al posto degli F-35.

I RISVOLTI

Il tema, come detto, è strategico, e sulla questione la politica americana pare compatta, con un ruolo determinante svolto dal Congresso. Già due anni, Capitol Hill aveva avviato un dibattito poi confluito nella sospensione delle consegne relative a equipaggiamenti di supporto e forniture per i velivoli turchi. Il Pentagono ha appurato da tempo che l’eventuale completa estromissione della Turchia non inficerebbe sulla prosecuzione del programma, che anzi è reduce dall’entusiasmo per l’accordo di massima raggiunto tra la Difesa e il costruttore Lockheed Martin per i prossimi lotti produttivi, con un decisa riduzione dei costi. Sempre ieri, il ministro della Difesa della Polonia, Mariusz Blaszczak, ha confermato la richiesta di quotazione per 32 velivoli, presentando il progetto di Varsavia ad aumentare il numero in futuro. Nei mesi scorsi le stesse intenzioni sono arrivate da Belgio, Singapore e Giappone, tanto che nessuno teme problemi nel caso della cancellazione degli ordini turchi.

SPAZIO PER ALTRI PAESI?

FQui entra in gioco un risvolto interessante per il nostro Paese, che a Cameri, in provincia di Novara, può vantare competenze di primo livello nell’ambito del Joint Strike Fighter, assemblando i velivoli italiani e olandesi, e realizzando diversi assetti alari. La Turchia finora realizzava diverse componenti per gli F-35 destinati alla propria Aeronautica e ad altri Paesi, compresi quelli americani. Nel caso venisse esclusa, tale produzione andrebbe riallocata, aprendo dunque possibilità di ulteriore lavoro per altri partner del programma, come confermato dallo stesso Pentagono (“fonti secondarie di approvvigionamento per le parti prodotte in Turchia sono in fase di valutazione”). L’occasione per l’Italia è ghiotta, ma occorre farsi trovare pronti, confermando gli impegni attuali e proponendo il sito di Cameri e le competenze acquisite dalla filiera. Pmi comprese.

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