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Ieri i manifestanti che da settimane scendono in strada a Hong Kong per chiedere lo stop della cinesizzazione sull’ex colonia britannica e l’avvio di un processo che possa arrivare alla democrazia (tema su cui ormai nessuno si nasconde più), si sono raccolti davanti al consolato americano e hanno chiesto apertamente a Donald Trump di “liberarli”. È un tentativo plateale di internazionalizzare la crisi, ma gli Stati Uniti hanno un atteggiamento molto cauto: sia perché il presidente ha promesso al suo omologo cinese di non esasperare i toni durante un incontro all’ultimo G20, sia perché Pechino ha già giocato di anticipo accusando, con propaganda e disinformazione, la Cia di essere dietro alle proteste. E dunque la strada per gli Usa è stretta.

Lo show dei manifestanti – che portavano con loro bandiere inneggianti a Trump, agli Stati Uniti, e usavano spesso la parola “freedom“, libertà, concetto non troppo recepito dal Partito comunista cinese, ma molto apprezzato dai fotoreporter che stanno raccontando con immagini spettacolari la crisi – è finito disperso dai lacrimogeni. La polizia è intervenuta e ha sparato nuovamente i gas ad alzo zero, i manifestanti hanno creato barricate improvvisate per strada. Il coordinamento delle dimostrazioni ha preparato una lettera indirizzata al Congresso, nella quale propone che i legislatori americani si mettano al lavoro per una sorta di “Hong Kong Human Rights and Democracy Act 2019”, ossia un provvedimento che affronti le violazioni dei diritti e le repressioni severe delle autorità. 

La situazione sta passando per una fase politica molto delicata. Carrie Lam, la Chief executive, la governatrice che amministra la provincia a statuto speciale hongkonghese per conto della Cina, è immersa in una sorta di crisi di identità. Un audio diffuso dalla Reuters la riprende dichiarare la propria impotenza stretta tra gli spazi minimi concessi da Pechino, e la si sente rimpiangere l’aver promosso – su richiesta cinese – la legge sull’estradizione che ha sancito l’inizio delle manifestazioni. Ora Lam ha ritirato del tutto il provvedimento, ma è chiaro che la gestione della crisi sta via via passando totalmente in mano al Dragone, che potrebbe anche ricorrere alla richiesta dello stato di emergenza (i presupposti ci sono: il governo cinese chiama le manifestazioni “sommosse” e ha parlato di episodi assimilabili al terrorismo).

Nei giorni scorsi il vicepresidente Wang Qishan era in visita nella provincia di Guangdong, Cina meridionale davanti a Hong Kong (area in cui per altro i cinesi stanno raccogliendo truppe). Wang è considerato una sorta di Mr Wolf cinese, un risolutore di crisi problematiche – l’ultima è intervenuto direttamente quando la Sars si diffuse a Pechino e fu nominato sindaco pro-tempore per gestire il contenimento.  È possibile che questo passaggio nel sud di uno dei più intimi collaboratori del presidente Xi Jinping sia servito per coordinare un qualche prossimo futuro per Lam,  il cui rapporto con Pechino è stato completamente eroso dalla crisi. I manifestanti percepiscono l’aiuto esterno da Pechino, e provano a coinvolgere gli Usa chiedendo altrettanto.

A brevissimo, uno dei pochi volti noti di questa protesta senza leader, Joshua Wong, capo del partito politico Demosisto, sarà in Germania e probabilmente negli Stati Uniti. Wong, che era stato arrestato nei giorni scorsi, si è già incontrato con un esponente del consolato americano settimane fa, vicenda che Pechino aveva usato per sostenere le denunce sul coinvolgimento americano. Ora, con le visite all’estero, proverà a muovere l’interessamento dei grandi del mondo per la causa pro-democrazia hongkonghese, ma è chiaro che prendere posizioni a favore delle proteste è un terreno delicatissimo, che significherebbe inimicarsi completamente la Cina.

(Foto: screenshot Ruptly)

La libertà ha le stelle e le strisce Usa. Anche ad Hong Kong (e anche con Trump)

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