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Agli occhi di Pechino, l’Europa è in palio. Lo dimostra per esempio il pressing mediatico organizzato attorno alle proteste di Hong Kong: il ministero degli Esteri cinese ha mosso diverse ambasciate europee chiedendo alle feluche di farsi spazio tra le pubblicazioni locali per esprimere attraverso op-ed il proprio dissenso per la non-denuncia dei disordini da parte dei vari stati europei. O peggio, come accaduto in Italia: dove l’ambasciatore ha convocato a Roma una conferenza stampa – che ha lanciato questa attività organizzata da Pechino – e ha accusato senza l’ombra di una prova gli Stati Uniti di aver un ruolo dietro alle manifestazioni nel Porto Profumato.

L’EUROPA, INDECISA, IN PALIO

Una campagna propagandistica incredibile quanto improbabile fino a qualche tempo fa: “L’audacia degli sforzi della Cina suggerisce che agli occhi di Pechino, l’Europa è in palio”, scrivono su Politico due fellow del centro di ricerca americano Cnas, Center for New American Security, Andrea Kendall-Taylor e Rachel Rizzo (la prima ha lavorato nell’intelligence community americana sotto Barack Obama, l’altra al dipartimento di Stato guidato da Hillary Clinton).

Il motivo sostanziale per cui il governo cinese autorizza certe operazioni dal valore puramente politico – che sarebbero sembrate avventuristiche pochi anni fa: l’idea di diffondere il carattere autoritario del governo cinese dal Vecchio Continente – è che l’Europa, qui evidentemente per Unione europea, non ha ancora espresso una posizione netta, univoca sulla Cina. O meglio: sullo scontro tra Stati Uniti e Cina. Bruxelles ha chiaramente evitato di schierarsi apertamente con Washington, ma in mezzo all’intensificarsi di questa guerra tra potenze mondiali a bassa intensità, il terzismo è percepito da Pechino come una possibilità di persuasione. In mezzo il potere dei soldi, tanti, e del mercato, enorme: Cina e Ue scambiano un miliardo di euro di beni al giorno.

LINEE GUIDA FORTI, APPLICAZIONI MOLLI

In realtà a livello di linee guida e dichiarazioni congiunte, Bruxelles ultimamente ha preso della posizioni severe con Pechino. Per esempio l’ha definito un “rivale sistemico”, non poco, e ha lavorato per stringere i controlli sugli investimenti cinesi in Europa. Ci sono paesi come la Francia e la Germania che hanno anche preso posizioni su quello che per il Partito comunista che guida il Dragone è il terreno più delicato, ossia il campo dei diritti umani. Quelli che appunto a Hong Kong vengono stracciati, perché – al di là della propaganda degli ambasciatori cinesi – chi protesta chiede niente più del rispetto di un trattato che garantirebbe all’ex colonia britannica di mantenere quel livello di autonomia in grado di tenere in piedi il sistema (più o meno fondato su uno schema di diritto).

Tuttavia non basta: perché davanti a posizioni più esigenti, in Ue ci sono quelle di altri paesi che si dimostrano disattenti per ragioni di interessi (perché l’Italia non si pronuncia su Hong Kong, per esempio, nonostante funzionari del governo abbiamo viaggiato nel paese anche durante le proteste?). E questa distonia rende l’Europa debole: una mancanza di coesione che si specchia sull’applicazione a livello dei singoli paesi membri di quelle direttive comunitarie, e che impedisce all’Ue di “contrastare efficacemente le sfide che l’ascesa della Cina crea o di allinearsi chiaramente con gli Stati Uniti nei modi che saranno richiesti per difendere i valori condivisi”, scrivono le due studiose del Cnas, non certo un think tank di quelli più conservatori (testimonianza di come la questione minaccia cinese negli Usa sia percepita allo stesso modo tra Democratici e Repubblicani; aspetto ben noto).

PECHINO, LE DEMOCRAZIE LIBERALI E LE RESPONSABILITÀ DI TRUMP

Tutto si deve a una mancanza di percezione sul fatto che Pechino possa anche essere una minaccia. Un approccio dovuto anche alla geografia: mentre ci sono stati dell’Ue che, per esempio, sentono la vicinanza russa come un problema anche dal punto di vista militare, con la Cina non è così. Ma, spiegano le due analiste, “le tattiche della Cina hanno finora oscurato (o reso più facile trascurare) il fatto che, come Mosca, Pechino vede la democrazia liberale come una minaccia per successo e stabilità, e crede che indebolendo la democrazia possa accelerare il declino dell’influenza occidentale”.

Pechino d’altronde ha lavorato con una strategia: ha fatto in modo di chiudere con l’Europa accordi che parlano di “armonia” – una delle parole chiave della “New Era” del capo di stato Xi Jinping – e ha usato il multilateralismo come arma per esaltare valori condivisi. Elementi aggiunti al valore economico-commerciale della partnership e messi in contrasto con un’amministrazione americana che invece negli ultimi tre anni è sembrata indicare apertamente l’Ue come un nemico. Per le due ricercatrici, la presidenza Trump è colpevole di aver creato i presupposti per far scarrellare l’Europa – o almeno parte delle visioni europeiste – verso Pechino. “Poiché la Cina e l’Europa si trovano sempre più dalla stessa parte dei conflitti con Washington, questa amministrazione ha permesso a Pechino di presentarsi come l’attore globale affidabile e responsabile”, scrivono.

L’EUROPA, LA CINA, GLI USA E IL FARO OCCIDENTALE

Qui sta il problema, però: perché la Cina prevede che la sua influenza economica si trasformi in politica, in una leva continua affinché l’Europa possa girarsi dall’altra parte su questioni come la crisi di Hong Kong, lo sfregio dei diritti umani in Tibet, o contese geopolitiche come quelle che riguardano Taiwan o il Mar Cinese Meridionale. Elementi con cui Pechino vuol rafforzare il potere cinese con la forza. O ancora, più l’Europa si avvicina alla Cina, minore sarà l’opposizione che la Cina dovrà affrontare nei suoi sforzi per riformare le norme su questioni enormi come i dati e la privacy, la libertà di Internet, l’intelligenza artificiale, e le governance annesse. In questo la competizione per il 5G, le operazioni con cui gli Stati Uniti stanno mettendo all’angolo imprese cinesi come Huawei e Zte, non sono solo una questione economica o di controllo del mondo dell’hi-tech, ma salgono di livello e diventano un campo di battaglia imprenscindibile nel terreno dei valori, oltre che a quello legato alle problematiche di sicurezza connesse.

“Per sostenere i loro valori condivisi, sia gli Stati Uniti che l’Europa devono respingere collettivamente le pratiche commerciali e di investimento sleali della Cina, le sue palesi violazioni dei diritti umani e le norme e le pratiche antidemocratiche che cerca di diffondere. Un’Europa che rifiuta di schierarsi è esattamente ciò che Pechino cerca di raggiungere” spiegano le analiste americane (da notare, ancora, che il Cnas è stato uno dei centri del pensiero strategico che ha contribuito alle policy dell’amministrazione Obama, che ha pescato diversi elementi dal libro dei suoi fellow). E si arriva chiedere la scelta di campo all’Europa: “L’Europa deve rendersi conto di dove si trovano i suoi interessi a lungo termine e non lasciare che questa amministrazione Usa o il fascino dei guadagni economici impediscano la scelta giusta. La salute della democrazia liberale dipenderà da essa”. Ossia, l’Europa deve far capire chiaramente alla Cina che si schiererà inequivocabilmente con l’America per sostenere le norme e gli standard democratici.

Democrazia o no? Il dilemma dell’Europa sotto l’assedio della Cina

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