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Chi investe si fida del prodotto, chi non lo fa ha qualche dubbio di troppo. E i grandi investitori globali sembrano avercene. Altrimenti non si spiegherebbe la grande fuga di capitali che ha coinvolto Wall Street nel mese di dicembre. Non è qualcosa di ben definito, forse più una paura incolore che sta permeando i centri nevralgici della finanza mondiale. Il dato sugli scambi di dicembre nella Grande Mela è inequivocabile.

Lo scorso mese i grandi fondi azionari hanno innescato vendite di titoli a Wall Street per 75 miliardi di dollari. Azioni ritirate in fretta e furia dai listini e monetizzate dai legittimi titolari. Ma non è questo il punto, succede in Borsa. A stupire è l’ammontare delle vendite. Una fuga di capitali così precipitosa e massiccia da non avere precedenti nella storia, da quando vengono rilevati questi dati. A nulla è valso il timido recupero dopo Natale: il 2018 si è chiuso con perdite del 5,6% per l’indice Dow Jones e del 6,2% per l’indice Standard& Poor’s 500. Cioè la peggiore performance annua dal 2008, l’anno del crack di Lehman Brothers, simbolo della crisi globale e che lasciò poi spazio alla ripresa, a partire dalla primavera 2009, con l’indice S&P 500 che fino ad oggi ha guadagnato il 250%.

Se davvero i numeri non mentono, allora la domanda da porsi è: di chi è la colpa? C’è una sorta di congiunzione astrale, materializzatasi sul finire del 2018. Per esempio, l’appiattimento della curva dei rendimenti sui titoli, cioè quando il lungo e il breve termine danno interessi simili. Gli investitori in pratica non vedono da qui a qualche mese un aumento dei guadagni sulle azioni detenute in Borsa e allora si spaventano e nel dubbio, preferiscono liquidare i titoli e ritirarli dai listini. Ma la più grande incognita sta nel rialzo dei tassi da parte della Federal Reserve, la banca centrale americana. I mercati si attendono infatti una pausa nei rialzi dei tassi vista come l’ammissione che l’economia americana sta rallentando.

Non è tutto, c’è un terzo ingrediente al mix: i debiti. Il fatto è che il mondo si sta scoprendo sempre più indebitato. I conti l’ha fatti Citigroup, primo conglomerato finanziario americano, calcolando come ad oggi l’esposizione mondiale sia aumentata a 250mila miliardi di dollari, il triplo rispetto alla fine degli anni ’90. Il grosso dello stock, nemmeno a dirlo, si annida negli Stati Uniti, in Cina, nell’Ue e nel Giappone, insomma nelle principali economie del pianeta. Si tratta di oltre due terzi dell’indebitamento globale, riconducibile soprattutto a famiglie e imprese.

Gli investitori anche in questo caso temono alcuni fattori. Primo, il fatto che le politiche messe in atto dalle economie avanzate per la crescita non siano sufficienti a ripagare il debito: se non si fa Pil non si può rimborsare chi ha prestato i soldi. Secondo, il cambio delle politiche monetarie da parte delle principali banche centrali. Se i tassi, come sembra, dovessero salire nel lungo periodo, restituire il denaro costerebbe di più. Terzo, il debito è soggetto a deterioramento, cioè perde valore nel tempo e chi ha prestato denaro rischia grosso. Anche qui un dato aiuta a capire. Le imprese Usa detengono circa 8mila miliardi di obbligazioni. Di queste il 40% ha un rating BBB, appena un gradino sopra il noch destinato a quelle aziende dove è sconsigliabile investire.

Debiti e tassi, ecco che cosa spinge alla fuga i grandi investitori. Report Citigroup

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