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“Siamo a Roma perché è una gran bella cittá”. Elliott Abrams accoglie sorridente un nugolo di giornalisti all’ambasciata Usa di via Veneto. Uno come lui non capita nella Città Eterna per caso. Nominato da Donald Trump inviato speciale degli Usa in Venezuela lo scorso gennaio, rodatissimo diplomatico di area conservatrice, Abrams ha fatto tappa nella capitale con il sostituto vicesegretario di Stato Cristopher Robinson per un delicatissimo round di colloqui con il governo russo, giunto a Roma con una delegazione guidata dal viceministro degli Esteri Sergey Ryabkov. Ieri l’incontro con Pietro Benassi, consigliere diplomatico del premier Giuseppe Conte, e alti funzionari della Farnesina. Oggi due ore di faccia a faccia con i russi. Sul tavolo la crisi umanitaria in Venezuela e un percorso per la stabilità politica che è tutto da costruire.

Gli americani assieme ad altri 53 Stati hanno riconosciuto Juan Guaidó come presidente ad interim, i russi difendono Nicolas Maduro. Nel limbo diplomatico restano pochi Paesi. Fra questi c’è l’Italia, che chiede nuove elezioni ma non si è unita al coro della comunità internazionale nel rinnegare il leader chavista. Non è un caso che proprio qui, a Roma, Washington abbia chiesto e ottenuto di negoziare con i russi.

Di negoziati però Abrams non vuole parlare. “Il futuro del Venezuela è nelle mani dei venezuelani – dice – il nostro è stato uno scambio di opinioni”. Uno scambio con pochi, anzi pochissimi punti di incontro. Eccone uno: “A differenza di Maduro che continua a negare la crisi umanitaria, il governo russo riconosce come noi la gravità della situazione”. Rimane un fossato sul futuro del Paese sudamericano. “Quello di Maduro è un regime illegittimo nato da elezioni false nel 2018 – sentenzia il diplomatico – l’oppressione va aumentando, ogni settimana vengono arrestati giornalisti, ci sono centinaia di prigionieri politici, bande armate che aggrediscono i civili”.

Il quadro economico è disarmante e sfugge a qualsiasi posizione ideologica. I numeri parlano da sé: “Un tempo il Venezuela era l’economia piú ricca del Sud America, oggi l’inflazione è di 1.000.000%, la produzione di petrolio è calata da tre milioni a un milione di barili al giorno e ogni mese cala di 50.000 barili”. Un trend che è più vecchio di quanto si pensi, e c’entra poco o nulla con le sanzioni americane, spiega Abrams: “È un calo che va avanti da dieci anni, non dipende da noi ma dal fallimento del regime socialista”.

Quello con i russi è il primo incontro sulla crisi a Caracas, ma non sarà l’ultimo, garantisce l’inviato. Dietro il fraseggio diplomatico si percepisce un bilancio mediocre del tête-à-tête romano. “Non possiamo prevedere quando cadrà il regime, ma aumenteremo la pressione”. Sullo sfondo incombe ancora l’ombra di un intervento militare Usa riecheggiato nelle parole di Trump, quando ha annunciato che “tutte le opzioni rimangono sul tavolo”. Abrams però smorza i toni: “Non è quello il percorso che abbiamo scelto di intraprendere”.

Perché il pressing aumenti gli Stati Uniti sperano che si unisca alla causa per una transizione democratica anche chi fino ad oggi ha dato forfait. E qui, col solito savoir faire dell’ambasciatore, Abrams tocca un tasto dolente per i gialloverdi. “Certo, con l’Italia c’è un disaccordo di fondo, perché il governo italiano non ha ancora riconosciuto Guaidó”. Il Dipartimento di Stato però guarda al bicchiere mezzo pieno. “Dagli incontri avuti ieri – dice l’inviato di Trump – posso dire che sono più i punti di incontro che le divisioni”.

Non sfugge certo a Washington il peso diplomatico dei tentennamenti italiani. A partire dal consesso europeo, dove il veto di Palazzo Chigi ha fermato una risoluzione comune di riconoscimento a Guaidó. L’auspicio finale è che Roma ci ripensi: “54 Paesi lo hanno già fatto, noi ci auguriamo che l’Italia divenga il cinquantacinquesimo, anche perché una posizione comune da parte dell’Europa sarebbe di grande aiuto e un’Ue che parla a 28 è più determinante di un’Ue a 24”.

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