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La recente polemica tra il presidente americano, Donald Trump, e il senatore dello Utah, Mitt Romney, mette nuovamente al centro del dibattito politico americano la questione dei delicati rapporti che intercorrono tra il Partito Repubblicano e l’inquilino della Casa Bianca.

In un duro editoriale sul Washington Post, Romney ha attaccato Trump, suscitando le reazioni piccate di quest’ultimo che – non a caso – ha dichiarato: “Preferirei molto che Mitt si concentrasse sulla sicurezza dei confini e su tante altre cose in cui può essere d’aiuto”.
D’altronde, che i rapporti tra i due fossero tesi non è una novità.

È dalle primarie repubblicane del 2016 che l’ex governatore del Massachusetts non mostra troppa simpatia per il magnate newyorchese. All’epoca, lo accusò infatti ripetutamente di essere una sorta di eretico pronto a scompaginare gli “autentici” valori del Partito Repubblicano, tradendo così le figure di numi tutelari come Lincoln e Reagan. Romney si mise di fatto alla guida della fronda repubblicana anti-trumpista e – secondo i beninformati – sarebbe stato addirittura pronto a fondare un partito di repubblicani delusi, insieme al giornalista neocon Bill Kristol. Alla fine, non se ne fece nulla. Ma quelle insistenti voci diedero un’idea del livello di scontro presente in seno all’elefantino.

Dopo la vittoria novembrina di Trump, le acque sembrarono parzialmente calmarsi. Anzi, per qualche tempo circolò la voce che il neo presidente fosse addirittura pronto a nominare Romney segretario di Stato. Probabilmente l’idea nasceva dalla volontà di ricompattare un partito spaccato, gettando un ponte verso le sue aree più tradizionali (e riottose). Anche in questo caso si concluse tutto con un nulla di fatto e la poltrona di capo del Dipartimento di Stato andò alla fine a Rex Tillerson: un businessman realista, molto lontano dalle idee interventiste di Romney. Poi, di nuovo il silenzio, fino a quando l’ex governatore non annunciò, lo scorso febbraio, la volontà di candidarsi al seggio senatoriale dello Utah: seggio che ha infine conquistato alle ultime elezioni di metà mandato.

Una notizia non propriamente rassicurante per Trump. E questa ennesima polemica testimonia che il rapporto tra i due non sia granché migliorato. È infatti chiaro che, al Senato, Romney abbia tutta l’intenzione di ritagliarsi adesso il ruolo che è stato – negli ultimi due anni – del senatore dell’Arizona, John McCain: vuole, cioè, mettersi a capo di una vera e propria fronda anti-trumpista. Repubblicano di tendenze centriste, Romney ha sempre fatto parte dello stato maggiore del Grand Old Party. E continua – esattamente come nel 2016 – a considerare Trump un corpo estraneo all’autentica ortodossia repubblicana. In questo senso, non è affatto escludibile che l’ex governatore possa cercare alleanze strategiche con altri compagni di partito, non propriamente amici del magnate: dal senatore del Nebraska, Ben Sasse, a quello dell’Ohio, Rob Portman.

Insomma, ancora una volta Trump sarà costretto a guardarsi le spalle in casa propria, sapendo che i peggiori pericoli si celano in seno a quello che (almeno teoricamente) dovrebbe essere il suo partito. Un fattore che potrebbe spingere il presidente a costruire alleanze alternative, proprio per isolare i colpi bassi delle serpi in seno. Non è d’altronde un mistero che – almeno su determinate questioni – il magnate abbia più a che spartire con un senatore democratico come Sherrod Brown che non con repubblicani alla Sasse o alla Romney. Del resto, sono svariati i provvedimenti che i repubblicani tradizionali non perdonano a Trump: dal protezionismo commerciale al tendenziale isolazionismo in politica estera. Nuove fibrillazioni nell’elefantino non tarderanno quindi ad arrivare. E bisognerà allora vedere se il presidente risulterà abbastanza abile per neutralizzarle.

Eppure c’è un’altra questione sul tavolo. Non è che per caso, con l’avvicinarsi delle primarie repubblicane, Romney stia nutrendo qualche ambizione di natura presidenziale? L’ipotesi non è del tutto improbabile. Né, nella storia americana, sarebbe la prima volta che un presidente in carica si ritrovi contestata la nomination del suo stesso partito (accadde già nel 1976, quando Ronald Reagan sfidò Gerald Ford). Il diretto interessato per ora ha seccamente smentito la possibilità di una sua discesa in campo. Eppure bisogna fare attenzione. Non solo perché potrebbe trattarsi di una tattica attendista (nella politica americana spesso i big aspettano l’ultimo momento per scendere in campo). Ma anche perché parrebbe che alcuni grandi finanziatori stiano effettuando decise pressioni sull’ex governatore.

Il punto sarebbe, nel caso, capire se Romney abbia reali possibilità di vittoria. Poche, a ben vedere. Non solo è infatti già stato sconfitto alle primarie del 2008 e alle presidenziali del 2012. Ma il suo moderatismo vagamente aristocratico gli ha sempre alienato le simpatie di parte cospicua della base repubblicana. Senza poi dimenticare che sia un mormone: fattore che gli ha creato in passato non pochi problemi con la destra evangelica. Infine, le sue idee tradizionalmente repubblicane (liberiste in economia e interventiste in politica estera) non sembrano più granché popolari nell’elettorato americano. Ecco che allora il senatore dello Utah potrebbe evitare lo scontro diretto con Trump, preferendo le tattiche di logoramento parlamentare. Ci riuscirà?

(Foto: Creative Commons)

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