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Alla fine Kamala Harris ha scelto: il suo running mate sarà il governatore del Minnesota, Tim Walz. Un nome, il suo, che è riuscito a prevalere su quello degli altri due contendenti in lizza per l’incarico: il governatore della Pennsylvania Josh Shapiro e il senatore dell’Arizona Mark Kelly. Il punto è adesso chiedersi se, strategicamente, la vicepresidente abbia effettuato una mossa giusta.

Innanzitutto, il principale problema della Harris risiede nel fatto che Donald Trump continua ad accusarla di essere un’estremista di sinistra: un modo con cui il candidato repubblicano cerca di alienarle il voto degli elettori centristi e indipendenti. Qualora avesse scelto Shapiro o Kelly, la vicepresidente avrebbe riequilibrato il ticket, spostandolo parzialmente a destra. La virata su Walz evidenzia invece la volontà della Harris di puntare tutto sullo schieramento progressista. Negli scorsi giorni, il nome del governatore del Minnesota come running mate è stato infatti spinto soprattutto dall’ala liberal del Partito Democratico. Del resto, sia sulle questioni eticamente sensibili che sull’immigrazione, Walz è sempre stato assai vicino alla sinistra dem.

Un altro aspetto da considerare è che, nelle scorse settimane, ampi settori della sinistra americana avevano effettuato pressioni sulla Harris affinché non scegliesse Shapiro: ebreo praticante, il governatore della Pennsylvania è infatti inviso alle galassie filopalestinesi per le sue posizioni graniticamente a favore di Israele e per le sue condanne delle proteste svoltesi negli atenei statunitensi contro lo Stato ebraico. Alcuni gruppi pro Palestina avevano addirittura creato un sito internet chiamato “Genocide Josh”. Non a caso, secondo The Hill, nelle scorse settimane, più o meno a porte chiuse, si sono verificati significativi scontri, in seno all’Asinello, tra i sostenitori e i detrattori di Shapiro. Con ogni probabilità, la Harris ha temuto le comunità arabo-americane che, elettoralmente di peso in Stati chiave come Michigan e Wisconsin, avrebbero potuto avviare una campagna di boicottaggio ai danni della sua candidatura presidenziale (come avevano già fatto con quella di Joe Biden durante le primarie dem).

Alla luce di tutto questo, è chiaro come, optando per Walz, la vicepresidente abbia ulteriormente rafforzato il suo fianco sinistro, che è mediaticamente quello più rumoroso, oltre che politicamente irrequieto. Non si può neanche escludere che, evitando di puntare su Shapiro, la Harris abbia voluto anche cercare di scongiurare la possibilità di proteste filopalestinesi nel corso della Convention nazionale democratica di Chicago. Il nodo, per lei, risiede però nel fatto che, così facendo, rischia di creare profondi malumori nell’ala centrista e maggiormente filoisraeliana dell’Asinello. Guarda caso, nelle scorse ore, un ex consigliere di Barack Obama, come Van Jones, ha lanciato l’allarme rispetto alla presenza di antisemitismo all’interno di alcuni settori del Partito Democratico. Inoltre, come già accennato, schierando il ticket presidenziale così a sinistra, la Harris si rende più vulnerabile agli attacchi dei repubblicani, che hanno tutto l’interesse a bollarla come un’estremista. Nomi come quelli di Kelly o di Shapiro sarebbero stati potenzialmente più attrattivi per una quota elettorale cruciale quale è quella degli indipendenti: una quota che difficilmente sarà invece disposta a digerire un profilo assai di sinistra come quello di Walz.

Emerge poi un tema legato alla mappa elettorale. Il Minnesota è sicuramente uno Stato molto importante in vista delle prossime elezioni presidenziali. Tuttavia, ancor più importante è la Pennsylvania.

Differentemente dal Minnesota che vota per i dem alle presidenziali da circa quarant’anni, la Pennsylvania era stata conquistata da Trump nel 2016. Forse quindi, da questo punto di vista, la scelta di Shapiro sarebbe stata più indicata. È pur vero che alcuni ritengono che Walz sarebbe un profilo adatto ad attrarre il voto dei colletti blu della Rust Belt. Va però anche ricordato che il governatore del Minnesota è un tenace sostenitore delle auto elettriche: un dossier, questo, che, negli ultimi anni, ha decisamente spaccato i metalmeccanici del Michigan. Un ultimo punto da considerare è che la campagna della Harris sta da giorni presentando la candidata dem come una paladina law and order, facendo leva sulla sua carriera come procuratrice distrettuale. Difficilmente Walz potrà però rafforzare questa narrazione: nel 2020, finì infatti nella bufera per come aveva gestito i disordini scoppiati a Minneapolis e fu, per questo, criticato anche dal sindaco dem della città, Jacob Frey. Non a caso, nelle ultime ore, la campagna di Trump lo ha attaccato soprattutto su questo fronte.

Insomma, la situazione resta ancora in evoluzione. Emerge tuttavia un dubbio. Se vuole arrivare alla presidenza, la Harris ha necessità di espandere significativamente la sua base di consenso. E, almeno per ora, è tutto da dimostrare che Walz si rivelerà la scelta giusta per conseguire questo fondamentale obiettivo.

Tim Walz è un grosso rischio per Kamala Harris. Ecco perché

La situazione resta ancora in evoluzione. Emerge tuttavia un dubbio. Se vuole arrivare alla presidenza, la Harris ha necessità di espandere significativamente la sua base di consenso. E, almeno per ora, è tutto da dimostrare che Walz si rivelerà la scelta giusta per conseguire questo fondamentale obiettivo

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