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Il segretario di Stato americano, Mike Pompeo, ha detto in un’intervista al Sinclair Broadcasting Group di essere fiducioso che tra Washington e Pechino si sta lavorando per creare un accordo “perfetto”: per meno, la Casa Bianca è pronta a rifiutare l’intesa.

Per quanto noto, comunque, entro fine mese Stati Uniti e Cina dovrebbero firmare un ampio accordo commerciale con cui mettere almeno momentaneamente in tregua lo scontro, che ha caratterizzato gli ultimi due anni segnando preoccupazioni sull’economia globale. La gran parte dei media internazionali sono più o meno concordi sul fatto che l’accordo potrebbe arrivare seguendo un’agenda già nota: il 27 marzo il presidente cinese Xi Jinping sarà a Mar-a-Lago, ospite di Donald Trump, che utilizza il buen retiro in Florida come luogo informale per appuntamenti sostanziosi. Sarebbe perfetto per entrambi firmare un qualche documento, anche solo in forma simbolica, in quell’occasione.

Se tutti i media raccontano la stessa cosa, significa che le informazioni che stanno uscendo dagli sherpa che conducono i colloqui per i rispettivi Paesi sono più o meno concordi. E infatti al momento non ci sono troppe sorprese nemmeno sui contenuti dell’accordo: la Cina dovrebbe accettare di rivedere alcune storiche barriere in settori come agricoltura, automotive (abbassamento dei limiti esistenti finora sulle importazioni dagli Usa) e chimica; gli Stati Uniti dovrebbero rivedere al ribasso le misure tariffarie alzate via via in questa fase di scontro. Di più: sembra che possano esser confermate le voci secondo cui i cinesi accetterebbero di aumentare l’import statunitense a 1,35 trilioni di dollari, anche qui con una tempistica: da spalmare nei prossimi cinque anni. E poi l’acquisto da parte della Cheniere Energy di 18 miliardi di gas naturale liquefatto americano nei prossimi dieci anni (non è secondario: gli Stati Uniti ci tengono parecchio a imporre il proprio ruolo nel mercato dell’energia sfruttando il gnl, e se la Cina diventasse un acquirente sarebbe un metodo per accontentare queste volontà e creare una cooperazione commerciale su un settore strategico).

A quanto pare, però, persistono i soliti problemi. “Soliti” perché da quando si racconta di questo scontro tra Pechino e Washington sfociato sul piano del commercio, la trade war come la chiamano gli americani, sono rimasti sempre gli stessi. Non è chiaro quanto la Cina abbia interesse e disponibilità a fare sul piano interno, su quelle che potremmo definire riforme strutturali: la partecipazione statale nelle società che altera la concorrenza; le politiche di gestione delle joint venture e il controllo quasi totale che i cinesi impongono sulle attività di proprietà estera operanti sul proprio territorio (e qui il trasferimento forzato di tecnologia imposto da Pechino è un tema del punto successivo); la proprietà intellettuale su cui gli americani intendono alzare linee difensive e su cui il rappresentante al Commercio della Casa Bianca, Robert Lighthizer che sta partecipando ai negoziati, ha detto che c’è massima concentrazione; i meccanismi di risoluzione delle dispute (dovrebbe nascerne uno congiunto su cui però gli americani vogliono costruire un sistema che dia a loro più garanzie che a Pechino, e i cinesi non sono d’accordo).

Capitolo a parte, ma sempre sotto la cartella “soliti problemi”, quello collegato ai furti e alle attività clandestine che il governo cinese sponsorizzerebbe per favorire le proprie aziende. Per esempio, ultima in ordine cronologico: 27 università tra Stati Uniti e Canada hanno subito attacchi informatici da parte di unità di cyber-intelligence cinesi finalizzati a rubare progetti e programmi tecnologici in studio all’interno degli atenei. Qui non c’è nemmeno possibilità di risoluzione della controversia, perché Pechino – ovviamente – si dichiara innocente.

Intanto sono usciti due studi che non danno ragione a Trump e alla sua guerra dei dazi (differentemente in passato c’erano state valutazioni secondo cui il peso dello scontro stava ricadendo più che altro su Pechino). Secondo un’analisi della Federal Reserve Bank di New York, della Princeton University e della Columbia University,  le tariffe imposte l’anno scorso da Trump su prodotti che vanno dalle lavatrici e dall’acciaio per circa 250 miliardi di dollari di importazioni dalla Cina stanno costando alle compagnie statunitensi e ai consumatori 3 miliardi al mese in costi fiscali aggiuntivi e stanno inoltre causando una deviazione stimata in 165 miliardi all’anno di scambi commerciali che portano a costi significativi per le aziende che devono riorganizzare le catene di approvvigionamento.

Domenica è invece uscito un articolo analitico co-firmato da Pinelopi Goldberg, capo economista della Banca mondiale ed ex direttrice della prestigiosa American Economic Review, secondo cui sono le ditte americane e i consumatori statunitensi a pagare il grosso dei costi (valutando inoltre che le principali vittime delle guerre commerciali di Trump erano state gli agricoltori e gli operai che vivono le aree che avevano sostenuto Trump nelle elezioni del 2016, “in parte perché le rappresaglie hanno colpito in modo sproporzionato i settori agricoli, e in parte perché le tariffe Usa hanno aumentato i costi degli input utilizzati da queste contee”, hanno scritto gli autori).

Questo genere di analisi non sono nuove, ma Trump non le ritiene efficaci: tre giorni fa, per esempio, ha di nuovo respinto le critiche e “si è vantato di seguire semplicemente quello che ha sostenuto essere una gloriosa storia di utilizzo delle tasse sull’importazione nella storia americana”, spiega la Bloomberg. Secondo Trump infatti i dazi contro la Cina sono stati “il più grande strumento di negoziazione nella storia del nostro Paese” e hanno permesso di arrivare a configurare l’accordo che prossimamente sarà annunciato portando Pechino al tavolo delle trattative.

 

 

dazi, armistizio, cinese

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