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Il generale Haftar nell’ultimo mese ha assunto il controllo di quasi tutta la Libia. Un’espansione militare dalla Cirenaica alle impervie dune del Fezzan, fino a lambire la capitale. Durante il “percorso” non ha esitato ad assicurarsi il controllo dei principali giacimenti del sud e dell’ovest. Il campo petrolifero di El Sharara, il più grande dell’area con una capacità estrattiva di circa 300mila barili al giorno, e il sito di El Feel, controllato da una joint venture tra Eni e National Oil Corporation (Noc). Ormai parlare di lui come dell’uomo forte dell’est è un eufemismo. Che ci piaccia o meno ora è l’uomo forte di tutto il Paese. Sono lontani i tempi della conferenza di Palermo quando, con l’endorsement americano e il placet dei russi, avevamo tentato di porci come interlocutori privilegiati del processo di stabilizzazione libico. Ci eravamo anche illusi di proporre una road map: una conferenza in Libia entro gennaio, elezioni a giugno, unione delle banche centrali e così via. Allora, addirittura, Haftar ci aveva “concesso” di mantenere Serraj alla guida del consiglio presidenziale fino alla tornata elettorale e aveva anche riaperto alla possibilità di far ripartire la nostra ambasciata in Libia, guidata, ora, da Giuseppe Buccino. Parole al vento, potremmo dire. In poco più di tre mesi abbiamo perso Serraj, il nostro alleato sul terreno che non controlla le numerose fazioni che stanno mettendo a ferro e fuoco la capitale, abbiamo perso influenza anche con gli attori locali, con cui Haftar, tranne alcune eccezioni, sembra aver raggiunto accordi. Abbiamo addirittura messo nelle sue (poco affidabili) mani uno dei più importanti giacimenti dell’Eni. Senza mezzi termini, una débâcle.

Ad aggiungere benzina sul fuoco abbiamo subito l’ennesimo “schiaffo” dai francesi che, solo per un po’, avevano finto di appoggiare l’Italia, inviando a Palermo il ministro degli esteri Le Drian, l’esponente europeo di maggiore peso tra quelli presenti. Oggi i nostri “cugini d’oltralpe” si stanno riprendendo la Libia, senza alcun coordinamento con l’Italia ma soprattutto con la comunità internazionale. Quasi in concomitanza con l’offensiva dell’esercito di Haftar, infatti, i Mirage dell’aviazione di Parigi hanno colpito incessantemente l’area fra la Libia e il Ciad, per sostenere militarmente il generale nella sua avanzata per il controllo del Paese. Inoltre, la diplomazia d’oltralpe starebbe lavorando per organizzare un vertice tra Sarraj e Haftar. Anche se non ci sono conferme ufficiali, una tale ipotesi insinua quantomeno un dubbio. L’8 novembre Macron ha invitato a Parigi importanti esponenti di spicco di Misurata, la città Stato che oramai è una sorta di terzo potere nel Paese, mentre pochi giorni fa alcuni funzionari dei servizi segreti della Dgse avrebbero effettuato una missione a Tripoli, forse per concordare una exit strategy per Serraj? I fili sul terreno sono stati tessuti, ora non resta che portarli su un piano diplomatico capace di incensare l’ego dell’Eliseo.

Ieri ci siamo forse giocati l’ultima chance. Durante il vertice tra Ue e Lega Araba (a cui la Francia non si è degnata di prendere parte) Conte ha cercato un dialogo con il presidente egiziano al-Sisi, che negli ultimi tempi si era mostrato abbastanza collaborativo. Anche qui abbiamo preso un bel due di picche. L’Egitto, braccio armato dell’Arabia Saudita e sponsor del generale Haftar, ha fatto chiaramente capire che non intende muoversi da questa posizione: Serraj appare sempre più un “re senza corona e senza spada”, un re nudo che oramai solo noi italiani ci ostiniamo a vedere ancora col suo bel mantello.

Cosa resta da fare, allora, per Roma? Di recente il nuovo ambasciatore italiano in Libia ha incontrato il generale “pigliatutto” per portare avanti la strategia inclusiva inaugurata a Palermo. Il rischio, però, è quello di tentare di salire in extremis sul cavallo vincente che, in quanto tale, ha già fin troppi, bravi, fantini a sua disposizione. Agganciare nuovi attori? Rischioso ma possibile. C’è qualcuno che nell’ombra sta tessendo una rete di contatti e accordi e che potrebbe essere il coup de théâtre nel futuro della politica libica. Il suo nome è ben noto: Saif al-Islam Gheddafi, il secondogenito del rais libico. D’altra parte è ancora popolare dentro e fuori l’ex Jamahiriya. Come Haftar, anche Saif fa perno sul tema della sicurezza che più preoccupa la popolazione e questo è un buon argomento per i libici stanchi di continue violenze.

Il “giovane Gheddafi” sembra pronto a dimenticare il voltafaccia italiano nei confronti del padre e tramite i suoi portavoce si è rivolto spesso alle autorità italiane per perorare la causa delle elezioni. Il presidente di FerderPetroli, Michele Marsiglia, in un comunicato stampa del 23 marzo del 2018, ha affermato che solo lui ha il potere di rilanciare il settore dell’oil & gas in Libia. Una dichiarazione che lascia poco spazio a fraintendimenti. Il vice ministro degli esteri russo Mikhail Bogdanov ha asserito che “Saif al-Islam dovrebbe far parte del processo politico in Libia”. Pare dunque esserci una certa convergenza tra la Russia e l’Italia sul “tema Saif”. Forse un ulteriore asset per una maggiore convergenza dell’Italia con Putin? Difficile prevederlo. Che possa essere un candidato vincente per le prossime elezioni è questione dubbia, ma una cosa è certa, meglio alleato che nemico.

(Dal blog di Michela Mercuri)

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Di Michela Mercuri

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