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Le forze collegate al generale Khalifa Haftar ieri sono state respinte dai miliziani fedeli al governo onusiano di Fayez Serraj in un checkpoint chiave a 30 km da Tripoli. Un centinaio di combattenti haftariani sono stati anche catturati – i loro mezzi sequestrati – da una delle unità pro-Serraj. La prima mossa per lo scacco a Tripoli è iniziata come spesso vanno le cose in Libia: molte dichiarazioni, a cui poi i fatti seguono con lentezza (ammesso che seguano).

I miliziani fedeli ad Haftar hanno preso comunque il controllo di Tarhouna, Aziziya, e Gharyan, città a sud di Tripoli prese con accordi locali senza sparare un colpo, e dell’ex aeroporto internazionale – ora usato solo per voli commerciali – che si trova anche questo nell’hinterland meridionale tripolino. Invece nella città costiera di Zawiya, a ovest di Tripoli, la milizia locale filogovernativa ha riconquistato la base a Janzour, “con un breve scambio di fuoco”, dice una fonte all’AFP.

È qui, al punto di passaggio chiamato “Gate 27” (lungo la strada costiera che collega Tripoli a Zawiya), che i miliziani che fanno parte del comparto sicurezza di Serraj hanno preso in ostaggio gli uomini di Haftar: “Sono 145” dice il comandante della sala operativa per la regione occidentale alla Reuters, ma su questi numeri, in questi momenti, in questo Paese, c’è sempre da fare attenzione (e infatti un’altra fonte dice sempre su Reuters “128!”, a un’altra ancora alla AFP “120”: diciamo un centinaio insomma).

Dal posto: “Il traffico scorreva normalmente oltre il checkpoint venerdì mattina”.

Una fonte anonima da Tripoli – in questo momento nessuno ha voglia di parlare apertamente, ma tutti con discrezione fanno arrivare alla stampa il loro punto di vista – ci manda anche questo messaggio: “La situazione potrebbe evolvere rapidamente e tu, dall’esterno, potresti avere più informazioni di me dall’interno, ma la città, almeno in centro, sembra abbastanza normale. Non è stato sentito alcun rumore di pistole o fucili”.

Venerdì, il segretario della Nazioni Unite, Antonio Guterres, è andato a Bengasi per incontrare il Feldmaresciallo Haftar nel suo feudo costruito dopo anni di battaglie in Cirenaica, la metà del Paese che più o meno controlla – giovedì, quando è partito lo spostamento di truppe haftariane, salite da sud, dove il generale aveva già preso altri punti strategici nei mesi scorsi, il capo dell’Onu era a Tripoli per organizzare insieme a Serraj gli ultimi dettagli della Conferenza internazionale per il dialogo che si dovrebbe tenere a metà aprile a Gadames, una città sul confine algerino-tunisino.

“La riunione non è andata bene”, dice un’altra fonte locale: Haftar sente di avere spinta e copertura politica – ha il supporto economico emiratino e da qualche tempo saudita, quello militare fornito dai contractor Wagner russi, e probabilmente una parte di appoggio politico francese, che però prende la via informale della consulenza di intelligence (aspetto questo delicatissimo, visto che Parigi ufficialmente appoggia la linea onusiana e considera – come praticamente tutta la comunità internazionale – Serraj come unico legittimato interlocutore e Haftar un elemento con cui non rompere il dialogo). Ma il Maresciallo non accetterà di cedere subito: e l’Onu altrettanto non vuol rinunciare al suo piano.

“Haftar sta agendo nel suo stile: si dice pronto a trattare, si siede ai tavoli dei negoziati a stringere le mani ma poi agisce sul terreno mettendo la comunità internazionale davanti ai fatti compiuti”, commenta Arturo Varvelli, Co-Head del Mena Center dell’Ispi. Per dire: nemmeno cinque mesi, il signore della guerra dell’Est libico era a Palermo, a stringere la mano al premier italiano, Giuseppe Conte, e al suo rivale Serraj nel quadro della Conferenza organizzata dall’Italia prima di quello che avrebbe dovuto essere “l’anno della svolta in Libia“, il 2019 secondo Conte. A febbraio era ad Abu Dhabi, ancora a stringere la mano a Serraj su cui adesso vuol passare sopra coi carri armati.

Haftar, spiega Varvelli, “sa di non avere grandi argini alla propria azione”: l’Onu esercita “un flebile, e nulla più che formale, supporto nei confronti di Serraj”, gli Stati Uniti non si immischiano nella crisi, l’Unione europea ha emesso niente di più di “un comunicato non menzionando neppure il nome di Haftar e le sua responsabilità nel rischio di una evoluzione violenta” e richiamando tutte le parti.

Inoltre, aggiunge l’analista italiano, “i miliziani hanno capito che il vento è cambiato e che il ruolo dei Paesi del Golfo è sempre più influente e remunerativo, in Libia come in tutto il Nord Africa“. Tuttavia, aggiunge Varvelli, Haftar non ha ancora la forza militare per entrare a Tripoli, soprattutto finché la città-Stato di Misurata non mollerà la difesa della capitale (giovedì i misuratini hanno subito risposto prontamente che sono pronti a scendere in battaglia contro Haftar). “L’azione è una sorta di bluff” utile per capire chi ha intenzione di appoggiarlo e chi invece di combatterlo.

Giovedì, quando Bruxelles ha fatto uscire il comunicato, alcuni politici libici pro-Haftar hanno manifestato con i loro contatti internazionali una forma di rimostranza: dicevano di essere rimasti delusi, dato che “alcuni Paesi” europei erano d’accordo per lo scacco su Tripoli del generale-freelance.

È abbastanza ovvio, date le circostanze, che Haftar – con i suoi sponsor – stia cercando di giocare le sue carte, alzando la posta, per poi ottenere qualcosa in più ai tavoli negoziali.

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