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Diciotto persone sono già state incarcerate, dice la SPA, agenzia stampa governativa saudita che per la prima volta ammette pubblicamente che il giornalista e dissidente Jamal Khashoggi è stato ucciso nel consolato del suo paese a Istanbul, durante una missione per riportarlo in patria. Secondo la versione diffusa successivamente dal ministero degli Esteri di Riad, una volta che Khashoggi, nato a Medina residente in Virginia, è entrato nel consolato e trovatosi davanti la squadra incaricata praticamente di rapirlo — con l’unica colpevolezza quella di tenere posizioni critiche contro il nuovo corso del potere saudita — il giornalista avrebbe fatto resistenza.

Da lì sarebbe scoppiata una colluttazione (almeno quasi due dozzine di uomini dei servizi contro di lui) in cui il famoso editorialista del Washington Post sarebbe stato strangolato. Nel tentativo di coprire l’accaduto gli agenti del team killer si sarebbero sbarazzati del corpo attraverso la collaborazione di partner locali. Riad, oltre gli arresti, avrebbe licenziato il vice capo dell’intelligence, il generale Ahmed al Assiri (che secondo una ricostruzione trapelata già nei giorni scorsi ai giornalisti potrebbe essere il capro espiatorio della vicenda), e uno stretto collaboratore della corte, Saud al Qahtani. Il primo è considerato l’organizzatore, l’altro il capo esecutore di una missione “fraintesa” dai 15 agenti che hanno intercettato il giornalista al consolato di Istanbul.

“Occorre con urgenza” una ristrutturazione dell’intelligence del regno, è il lancio della SPA successivo all’ammissione di colpa, e i virgolettati sono attribuiti a re Salman — ossia sono la dichiarazione pubblica in cui il sovrano saudita ammette i fatto che da giorni le autorità turche stanno passando ai giornali a ciclo continuo: Khashoggi è morto, ammazzato da una squadraccia dei servizi nel consolato saudita della più importante città della Turchia – i turchi aggiungono che è stato torturato, sedato e infine il suo corpo smembrato sotto gli occhi del console, e di tutto avrebbero prove audio e video.

Quel che è interessante delle dichiarazioni del sovrano, e che chiunque segue le dinamiche del regno sa perfettamente, è che i servizi segreti, così come tutto l’interno apparato di sicurezza saudita, dalla polizia all’esercito, è già stato riformato negli ultimi due anni attraverso un repulisti ordinato dall’erede al trono Mohammed bin Salman. Il figlio del re è partito da lì per strutturare il suo potere interno da cui ha scalzato il cugino nella successione, e su cui ha piantato le basi per costruire gli ambiziosi piani di ammodernamento del regno seconda la sua “Vision 2030”. Chi ha agito contro Khashoggi è andato controllo, oppure ha intenzionalmente voluto sabotare i progetti del principe creando uno scandalo pazzesco per contro-avvantaggiarsi nella lotta di potere a palazzo?

Poche ore prima della SPA, dall’Arizona (dove si trovava per firmare un memorandum presidenziale) era tornato sul caso Donald Trump. Il presidente americano era stato il primo dei tre grandi attori coinvolti nella vicenda ad ammettere ufficialmente la morte del giornalista — Washington ha seguito il caso con estrema attenzione e presenza, sia perché Khashoggi da un anno s’era rifugiato negli Stati Uniti temendo per la propria sicurezza in Arabia, sia perché Turchia e Arabia Saudita sono due alleati storici americani coinvolti in una vicenda di “magnitudine internazionale” (cit. New York Times). Trump, che ha tenuto posizioni altalenanti, difendendo spesso l’innocenza fino a prova contraria dei sauditi soprattutto di re ed erede (con cui ha fortemente rinvigorito i rapporti fin dall’inizio della sua amministrazione, e dunque lo ha fatto per una ragione di immagine personale), è tornato su una posizione un po’ più severa — già assunta pubblicamente domenica scorsa durante un’intervista televisiva e poi ammorbidita nel corso della settimana.

Il presidente ha detto di ritenere “credibile” la versione saudita (cosa che per molti esperti non è) e ha annunciato nuovamente la volontà di punire chiunque sia il responsabile dell’assassinio del giornalista del WaPo, anche se ha detto di escludere l’accordo sulle armi dagli ambiti sanzionabili. “È presto per ora”, ha detto comunque, aggiungendo che vuol prima parlare con bin Salman per aver da lui chiarimenti (“è molto importante” che abbia già fatto arrestare i responsabili), e sulle eventuali decisioni ha fatto sapere che è sua intenzione coinvolgere il Congresso — che in realtà è da giorni che sta chiedendo alla Casa Bianca di prendere una posizione più dura sull’accaduto.

Giovedì il presidente della Commissione Esteri del Senato, Bob Corker, un repubblicano occasionalmente critico con Trump, aveva detto in un’intervista che la Casa Bianca ha dato ordine di rallentare il passaggio di informazioni di intelligence sul caso al gruppo senatoriale che presiede. È stato prontamente smentito dal portavoce del Consiglio di Sicurezza nazionale, ma la situazione è delicata perché la Commissione di Corker ha avviato un’indagine politica sul caso Khashoggi sotto il Magnitsky Act, una legge sulle violazione dei diritti umani (detto in modo semplificato, ndr) attraverso cui i senatori posso procedere con inchieste congressuali su fatti e persone per poi avanzare al presidente richieste di sanzioni. Corker, che ha fatto palesemente capire che secondo lui bin Salman era in qualche modo responsabile ultimo della morte del giornalista (e non è l’unico senatore su questa posizione), ha replicato alla dichiarazione di colpevolezza di Riad annunciando che comunque il lavoro della Commissione andrà avanti in modo indipendente.

La linea sui diritti è stata cavalcata anche dal segretario di Stato, Mike Pompeo, che è stato colui che Trump ha delegato per gestire l’aspetto politico e diplomatico della vicenda. Pompeo, che nei giorni scorsi è stato a Riad e Ankara, ha anticipato ai giornalisti che lo accompagnavano in un viaggio in Messico di aver già sulla sua scrivania “un’ampia gamma” di risposte contro i responsabili dell’omicidio di Khashoggi, fosse pure qualcuno della leadership di Riad. Poi ha aggiunto di aver spiegato in settimana al principe Mohammed e ad altri funzionari sauditi a Riad che gli Stati Uniti non “approvano le esecuzioni extragiudiziali”, che quel tipo di attività non è “coerente con i valori americani” e che era responsabilità loro arrivare al fondo di ciò che è successo nel loro consolato.

 

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