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È quella del procuratore generale Jeff Sessions la testa che il presidente americano, Donald Trump, ha deciso di tagliare poche ore dopo aver assorbito la mezza sconfitta alle elezioni di metà mandato. Alleato di Trump fin dall’inizio della campagna (quando da senatore esperto dell’Alabama fu il primo repubblicano a sostenerlo come candidato), Sessions paga un logoramento del rapporto personale con l’amico presidente, che non gli ha mai perdonato la scelta di ricusarsi dal Russiagate. Ora il dipartimento di Giustizia sarà guidato ad interim da Matthew G. Whitaker, attuale capo dello staff dello stesso Sessions, e poi seguirà il processo di nomina, audizione e infine approvazione del Senato a maggioranza repubblicana.

“Caro signor presidente, su tua richiesta rassegno le mie dimissioni”, ha scritto Sessions nella lettera di addio: “Abbiamo agito con integrità portando avanti legalmente e aggressivamente l’agenda politica di questa amministrazione”, aggiunge – e il riferimento va soprattutto alle questioni sull’immigrazione, dove Sessions ha svolto il ruolo di esecutore dei provvedimenti più duri. Secondo quanto raccontato dal generale John Kelly, il Chief of Staff di Trump, è stato lui a chiamare Sessions e a dirgli che era giunta la sua ora: il presidente con il segretario alla Giustizia non ci avrebbe nemmeno parlato direttamente.

La tempistica era programmata: Trump era esausto, l’amministrazione però non voleva che le dimissioni di Sessions potessero in qualche modo influenzare negativamente il voto delle midterms, ma allo stesso tempo farlo saltare è stato un segnale di forza davanti al suo elettorato da far seguire alla sconfitta alla Camera.

L’aspetto più interessante sta dietro la notizia (di per sé attesa da tempo, visto le critiche feroci che Trump aveva mosso pubblicamente contro il suo ministro: è un “debole”; uno “sleale”; la sua ricusazione è stata “una disgrazia”, per dirne un paio) e riguarda, appunto, il Russiagate. Sessions s’era ricusato dall’inchiesta perché aveva ammesso di aver tenuto nascosto al Senato – durante la sua audizione nel corso della fase di nomina – incontri avuti ai tempi della campagna elettorale di Trump con l’ambasciatore russo negli Stati Uniti, Sergey Kislyak, una delle figure chiave dell’inchiesta sulle interferenze russe, le collusioni trumpiane e le eventuali ostruzioni alla giustizia del presidente.

È probabile che possa esserci in ballo il ruolo di Robert Mueller, il procuratore speciale che il vice-segretario alla Giustizia, Rod Rosenstein ha incaricato per gestire la squadra legale che si sta occupando del Russiagate – ieri il team di Mueller è stato attaccato, ancora, pubblicamente, via Twitter, da Trump, che ha definito i magistrati dei “democratici arrabbiati” che stanno continuando a portare avanti una “caccia alle streghe”.

E Whitaker è un trumpiano di ferro che non vede di buon occhio le indagini di Mueller: la sua nomina sfrutta un cavillo di legge che permette al presidente di incaricare un procuratore generale temporaneo seguendo non la linea di successione diretta (secondo cui spetterebbe al vice ricoprire il ruolo), ma scegliendolo tra i dirigenti del dipartimento; la mossa è vista come la possibilità di mettere la Giustizia in mano a un anti-Mueller, cosa che Rosenstein invece non è, visto che è stato lui a deciderne la nomina al momento della ricusazione di Sessions.

Momentaneamente Whitaker ha dunque sotto controllo l’inchiesta sulla Russia: i leader democratici hanno subito chiesto al nuovo procuratore ad interim di evitare di esercitare poteri sull’indagine di Mueller, ma tutto fa pensare che invece non andrà così (la durata dell’incarico di Whitaker può essere al massimo di 210 giorni, ma estendibile in caso il Senato allunghi i tempi di nomina del nuovo procuratore). Tecnicamente il nuovo procuratore può limitare tutto il limitabile sul Russiagate, può mettere paletti giuridici, inibire certi campi, tagliarne i fondi (sebbene dovrebbe avvisare il Congresso delle sue decisioni), fino a licenziare Mueller. Whitacker è l’unico al momento ad avere in mano questo potere, e tra l’altro ha anche la possibilità di modificare le regole decise da Rosenstein sulle motivazioni che possono portare al licenziamento.

Cosa significa il licenziamento di Sessions per Trump e per il Russiagate

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