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“Gli eventi hanno fatto cambiare lo scenario libico. Mentre noi continuavamo a trattare sui tavoli diplomatici a livello internazionale, in realtà qualcuno parla con i fatti: Haftar, insieme ai russi e agli emiratini ha scavalcato qualsiasi tipo di iniziativa diplomatica, rendendola obsoleta. Anche perché, di fatto continuano a prendere terreno in Libia e non hanno nessun vincolo che li obblighi al dialogo”. Così Arturo Varvelli, senior research fellow dell’Ispi in una conversazione con Formiche.net ha spiegato l’attuale situazione di crisi sul fronte libico. E mentre l’Italia, anche attraverso gli ultimi incontri di Moavero e Salvini con Ahmed Maitig, vice presidente del governo di al Serraj, continua a ritagliarsi il proprio ruolo di attore privilegiato, la necessità di un maggior coinvolgimento degli Stati Uniti diventa fondamentale. Anche e soprattutto “come attore guida in grado di mediare le divergenze tra i vari attori europei”, ha sottolineato Varvelli.

Nel corso del vertice di Abu Dhabi la scorsa settimana, insieme a Serraj e Haftar erano presenti anche dei rappresentanti da Washingtom. Come si stanno muovendo gli statunitensi sul fronte libico?

Sulla Libia gli americani sono un po’ latitanti. Per lo meno sul versante politico. Sembra che non rientri nella scala delle loro priorità e non sono attualmente molto attivi. Lo sono stati in passato attraverso il lavoro svolto dal vice inviato speciale delle Nazioni Unite Stephanie Williams, che s’è rivelata essere un elemento importante per alcuni passaggi fondamentali che ci sono stati sull’impianto e sulle riforme economiche che il governo Serraj ha incrementato tra settembre e novembre di quest’anno. Dietro questa iniziativa c’era lei, appoggiata in modo consistente dagli americani che hanno creduto molto nel progetto.  Non è dunque sufficiente il lavoro dei diplomatici come quelli presenti ad Abu Dhabi, ma è necessaria una visione politica che in questo momento manca all’amministrazione Trump. Questi ha un po’ delegato agli europei il dossier, in particolare all’Italia, che però in questo momento è debole, considerando che il cavallo vincente resta Haftar.

In che modo, secondo lei, gli Usa possono fungere da mediatori tra gli attori europei e i loro interessi in Libia?

Il ruolo degli americani potrebbe essere quello di guida, ma in questo momento stanno dimostrando una scarsa volontà ad un vero impegno politico nel dossier. Questo non significa che non abbiano interesse, ma sarebbe necessario che l’impegno fosse costante e che ci fosse una visione politica ampia su quello che riguarda la Libia. Questo attualmente non si sta verificando, andando, comunque, in continuità con quanto avvenuto durante l’amministrazione Obama. Tutta l’azione condotta dagli Usa post 2011 fu fatta per il disimpegno e per andare un po’ a compensare quello che Obama stesso ebbe a definire come il suo più grande errore, almeno dal punto di vista dell’impegno militare. In realtà, quindi, tutto rientra in un lungo tentativo di disengagement.

E gli attori regionali come si inseriscono in questo contesto?

Questo disimpegno da parte americana ha lasciato ampio spazio di manovra agli attori europei, parliamo appunto della Francia e dell’Italia. Anche se, senza enfatizzare, non sono stati loro per lungo tempo il problema della crisi libica ma è stata appunto l’azione degli attori regionali. Egitto, Emirati e Arabia Saudita, insieme alla Russia da una parte e dall’altra parte Turchia e Qatar. Con una delle due parti che sembra aver prevalso per lungo periodo sull’altra in modo da far godere Haftar di una sproporzione di supporto internazionale, beneficiandone.

Prospettive future?

Sono sempre più sicuro che Haftar prenderà la Libia. Nel bene o nel male, con elezioni politiche di qualche tipo oppure attraverso l’intervento militare. Penso questo soprattutto per due motivazioni: in primo luogo per uno squilibrio di forze a suo favore. Nonostante tutti si dicano a favore del governo internazionalmente riconosciuto in realtà vi è una preponderanza netta in favore di Haftar da parte di alcune potenze internazionali. La seconda motivazione è che la popolazione libica è stanca delle milizie, di non avere uno Stato vero e proprio, di vedere che il monopolio dell’uso della forza non viene ricostituito, che l’economia viene depauperata dalle azioni dei miliziani o di criminali all’interno delle istituzioni. Dunque è chiaro che la popolazione si affidi a questo “salvatore della patria”, a mio parere molto improvvisato e incapace che è Haftar, ma che in qualche modo sulla scena del marketing politico interno sta funzionando bene.

Haftar potrebbe arrivare fino a Tripoli?

Non è detto che resosi abbastanza forte possa presentarsi alle porte della capitale, conquistare benevolmente, o attraverso l’appoggio degli Emirati, alcune delle milizie di Tripoli. A quel punto, forse, altri miliziani e capi milizia che hanno la “pancia piena” potrebbero fuggire all’estero, abbandonando il terreno. A questo punto Haftar avrebbe campo libero e potrebbe anche ottenere il controllo della capitale. A quel punto comincerebbero i problemi perché dovrebbe inziare a governare. Naturalmente però se questo accadrà tra due anni o tra sei mesi è molto difficile prevederlo.

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