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L’accusa a suo carico è pesante e, se venisse riconosciuta colpevole, rischierebbe una pena di oltre 30 anni di carcere. Per Meng Wanzhou, direttrice finanziaria del colosso cinese delle telecomunicazioni Huawei arrestata in Canada, si è tenuta un’udienza di comparizione a Vancouver (aggiornata a lunedì), durante la quale si è spiegato che la donna è sospettata almeno dal 2016 di “frode” dagli Stati Uniti, per aver mentito alle banche sul ricorso a una filiale dell’azienda per avere accesso al mercato iraniano, in violazione delle sanzioni.

I SOSPETTI DI WASHINGTON

La tesi degli Usa è che abbia usato una sussidiaria di Huawei – Skycom – per accedere al mercato iraniano violando cosi’ le sanzioni Usa. Stando al procuratore, la donna aveva garantito alle banche con cui faceva business che le due aziende erano separate ma Washington sostiene che Skycom sia di fatto Huawei.

L’ACCUSA DI COSPIRAZIONE

Per questo Meng Wanzhou – arrestata l’1 dicembre proprio mentre si teneva un importante bilaterale tra Donald Trump e Xi Jinping al G20 di Buenos Aires – ora rischia l’estradizione negli Usa ed è accusata di “cospirazione al fine di frodare diverse istituzioni finanziarie”, presunto reato per il quale un avvocato del governo canadese chiesto alla corte di respingere la richiesta di libertà su cauzione, mentre Huawei e la stessa Pechino continuano a respingere ogni addebito e ne chiedono l’immediato rilascio.

IL CASO HUAWEI

Il caso, tuttavia, è molto più complesso. Innanzitutto perché la donna non è una “semplice” manager, ma oltre ad essere Cfo e vice presidente del board, è anche la figlia del fondatore del gruppo, Ren Zhengfei, ex ingegnere dell’esercito di Liberazione Popolare cinese. La dirigente (che ha tenuto il cognome della madre) aveva iniziato a lavorare come segretaria per Huawei nel 1993, molto prima che il gruppo diventasse il gigante delle telecomunicazioni che è oggi. 46 anni, Meng Wanzhou aveva abbandonato gli studi alle superiori, ed era rimasta nell’ombra a lungo: aveva iniziato ad acquisire visibilità solo nel 2011, fino a diventare uno dei volti più noti del gigante tecnologico, al centro di diffuse preoccupazioni di sicurezza sul piano internazionale. E sono proprio questi timori a rendere la vicenda intricata e di difficile soluzione, almeno in tempi brevi, anche perché il caso potrebbe compromettere la già fragile tregua commerciale di 90 giorni siglata proprio sabato scorso dai leader delle due nazioni.

LE OMBRE SULLA COMPAGNIA

Da tempo in Occidente si discute del ruolo di colossi come Huawei, alfiere della tecnologia cinese nel mondo considerato da molti servizi servizi di intelligence – come raccontato da Formiche.net – troppo contiguo al governo del suo Paese per essere ritenuto affidabile. Questi timori hanno spinto l’alleanza di Paesi anglofoni Five Eyes a bandire, quasi in blocco, la compagnia da cinese da ogni coinvolgimento nella parte “core” di una tecnologia strategica come il 5G (una presa di posizione, ha detto il professor Carlo Alberto Carnevale-Maffè, dettata dal fatto che le autorità Usa hanno chiesto alle aziende di Pechino architetture verificabili, così da poter essere sottoposte allo scrutinio delle istituzioni deputate alla sicurezza, e ha bandito chi non assicurava questi requisiti). E ora, dopo la strada intrapresa da Washington, anche alleati europei riflettono se compiere la medesima scelta. Poche settimane fa fonti citate dal Wall Street Journal hanno raccontato che funzionari del governo americano avrebbero incontrato controparti e dirigenti delle aziende di telco di Paesi amici e alleati come Giappone (che secondo la stampa nazionale starebbe già pensando all’esclusione dagli appalti pubblici di grandi aziende tecnologiche cinesi), Germania e anche Italia per spiegare loro quanto alto sia il pericolo dal loro punto di vista, soprattutto in nazioni, come le tre citate, che ospitano basi militari americane sul loro territorio che – al netto dell’utilizzo della rete satellitare e telefonica del dipartimento della Difesa per comunicazioni altamente sensibili – vedono transitare gran parte del loro traffico su comuni reti commerciali.

UNA CONTESA GLOBALE

Tuttavia, ha evidenziato a questa testata il sinologo Francesco Sisci – saggista, editorialista e ricercatore della China’s People’s University – l’aspetto tecnologico e di sicurezza sarebbe solo uno dei fronti che vedono opposti Washington e Pechino. “L’arresto in Canada di Meng Wanzhou – ha spiegato l’esperto – lancia un messaggio ben preciso degli Stati Uniti ai vertici politici della Repubblica Popolare e cela l’esplosione di una più ampia contesa globale, commerciale ma non solo, in atto tra i due Paesi”. Nel tempo, ha rimarcato Sisci, “è cresciuta una guerra commerciale data da una differenza sostanziale tra economie diverse e sono emerse pesanti recriminazioni sul furto – soprattutto cyber – di know-how. Ma in verità la preoccupazione oggi è strategica e riguarda il sistema politico cinese, non democratico rispetto agli standard occidentali, e una serie di dossier sull’espansionismo cinese che vanno dalle tensioni nel Mar cinese meridionale alle questioni territoriali col Giappone, passando per la Belt and Road Initiative”.

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