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“Un’opportunità fondamentale”. Così l’inviato speciale delle Nazioni Unite Martin Griffiths ha definito i colloqui di pace per la pace in Yemen, appena iniziati a Stoccolma.”Nei prossimi giorni avremo un’opportunità fondamentale per dare una spinta al processo di pace: esiste una maniera di risolvere il conflitto, e si farà se esiste una volontà in tal senso” ha spiegato Griffiths, sottolineando come il Consiglio di Sicurezza dell’Onu sia “unito” nel suo sostegno ad una soluzione politica. I colloqui, d’altra parte, rappresentano il primo tentativo diplomatico di mettere fine al conflitto dello Yemen. “Si tratta ancora di colloqui preliminari e indiretti tra le parti, in cui l’inviato dell’Onu fa la spola tra le due delegazioni. Comunque il fatto che le due delegazioni siano entrambe in Svezia è già un risultato positivo e inatteso rispetto allo stallo passato”, afferma a Formiche.net Eleonora Ardemagni, ricercatrice associata Ispi e cultrice della materia all’Università Cattolica. Un primo tentativo diplomatico, dunque, per mettere fine a una guerra che dal 2015 ad oggi ha già fatto più di diecimila vittime. Una vera e propria crisi umanitaria, tra le più gravi.

E se le trattative sono ancora agli step iniziali, l’Onu è già riuscito a formalizzare l’accordo per uno scambio di prigionieri tra le forze yemenite lealiste filo-saudite e gli insorti Houthi, assicurando in questo modo una tregua effettiva nel porto di Hodeidah. Un modo, tra l’altro, per garantirne, oltre l’effettività, anche l’ampiezza, interrompendo i bombardamenti sia nel nord del Paese, che per quanto riguarda gli attacchi missilistici degli Houthi sulle città del sud dell’Arabia Saudita.

Inoltre, “un risultato soddisfacente potrebbe essere già un accordo sulla gestione della città di Hodeidah, la città sul mar Rosso da cui arrivano l’80 per cento degli aiuti umanitari. Questa in passato era stato il nodo cruciale che aveva diviso le parti, e che le divide tuttora”, continua Ardemagni. “L’Onu aveva proposto di supervisionare il porto (bisogna ricordare che la città è ancora in mano agli Houthi), ma non c’era alcun accordo su quale delle due fazioni dovesse conservare il controllo della città. Questo sarà quindi uno snodo difficile del negoziato”. In sostanza – afferma ancora l’esperta – “una tregua duratura per la città di Hodeidah sarebbe già un risultato positivo, anche per evitare un aggravamento della crisi umanitaria. Questo incontro preliminare svedese dovrebbe poi evidenziare le prossime tappe diplomatiche per la formazione di un governo di transizione, siamo infatti ancora agli inizi del lavoro diplomatico”.

Nel frattempo, mentre i rappresentanti delle due fazioni si apprestano a sedersi al tavolo delle trattative, con la speranza di una soluzione adeguata per entrambi, i ribelli Houthi hanno minacciato di impedire agli aerei delle Nazioni Unite l’utilizzo dell’aeroporto di Sana’a in caso di mancato ripristino del traffico aereo civile nella capitale dello Yemen. L’aeroporto era stato chiuso al traffico commerciale proprio dopo l’intervento militare della coalizione guidata da Riad del 2015, volto a sostenere il governo del presidente Abd Rabbpo Mansour Hadi.

“Se non ci sarà alcuna decisione nei colloqui in Svezia (che dovrebbero iniziare oggi) sull’apertura dell’aeroporto della capitale al popolo yemenita, ordinerò al Consiglio politico e al governo di chiuderlo a tutti gli aerei”, ha scritto su Twitter il presidente del comitato rivoluzionario del gruppo ribelle, Mohammed Ali al Houthi. E ancora: “Nel caso in cui l’aeroporto non sarà aperto, i funzionari delle Nazioni Unite saranno in grado di raggiungere Sana’a solo via terra”.

Mentre le premesse restano comunque ancora ingarbugliate e colme di complicazioni, il primo round di discussioni si concentrerà principalmente sulla costituzione di una base di fiducia tra le due parti, in modo da poter avviare la formazione di un organo di governo transitorio. In un’intervista all’emittente del Qatar al Jazeera, l’esponente di spicco dei ribelli sciiti Houthi, Abdul Malik al Ajri, ha dichiarato che il gruppo spera che i colloqui di pace possano porre fine alla guerra civile e l’avvio di un “dialogo politico inclusivo”. Un punto di svolta che poggia le sue basi anche sulle nuove frequenze del rapporto tra Washington e Riad, anche dopo i risvolti del caso Khashoggi.

“Il caso Khashoggi ha incrementato la tensione dei media internazionali sul conflitto in Yemen, anche se indirettamente. E lo ha fatto mettendo sotto ulteriore esame le scelte di politica estera del principe ereditario Mohammed Bin Salman. Allo stesso tempo gli Stati Uniti hanno aumentato la pressione diplomatica nei confronti dell’Arabia Saudita per trovare una soluzione politica a questo conflitto”, ha sottolineato Ardemagni. D’altra parte, però “c’è anche da dire che il nuovo posizionamento degli Stati Uniti, più deciso nel chiedere all’Arabia Saudita di negoziare, è anche dovuto all’aumento delle attività diplomatiche sia dell’Iran che della Russia sullo Yemen. È da definirla, quindi, anche una mossa geopolitica”, ha continuato.

Senza dimenticare il ruolo degli Emirati Arabi, che come sostiene la ricercatrice “sono l’altro grande protagonista di questo conflitto, soprattutto per quanto riguarda l’intervento di terra e la città di Hodeidah”. E ancora: “Gli Emirati Arabi hanno da subito dichiarato grande sostegno per questa nuova iniziativa diplomatica proprio perché sono i più coinvolti dal punto di vista diplomatico. E non solo con la presenza di forze speciali emiratine sul campo ma anche per l’addestramento e il finanziamento delle forze yemenite che si oppongono agli Houthi”. Tutto comunque è ancora da definire e dipenderà, senza dubbio,  dai due player principali: l’Arabia Saudita gli Houthi.

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