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Un intervento militare degli Stati Uniti in Venezuela è “un’opzione”. Il presidente Donald Trump rivela in un’intervista sulla Cbs a Face the Nation di valutare tutte le opzioni sul tavolo. Nicolas Maduro, ha spiegato Trump, “mi aveva chiesto un incontro ma io ho rifiutato. All’epoca decisi di no perché in Venezuela sono accadute così tante cose orribili.

Quello era il Paese più ricco di tutti in quella parte del mondo, che è una parte molto importante del mondo. E ora vedi la povertà e vedi l’angoscia e vedi il crimine e tutte le cose che stanno accadendo”. Il monito del tycoon giunge all’apice di un’escalation dei toni che ha portato oggi Maduro a paventare il rischio di una “guerra civile” e ha invitato sui canali social i venezuelani a difendere la patria di Simòn Bòlivar e Hugo Chavez contro il “fallito golpe” degli Stati Uniti.

L’opzione militare nel Paese è un mantra che Trump ha ripetuto fin dagli inizi della crisi umanitaria in Venezuela, quando ancora i rapporti diplomatici fra Washington e Caracas non erano stati interrotti. “Ora penso che il processo si stia compiendo, ci sono enormi proteste” ha spiegato alla Cbs il presidente, definendo il neo-presidente ad interim Juan Guaidò “un giovane ed energico gentiluomo”.

La minaccia di intervento di Trump va mitigata con le dichiarazioni che in queste ore si sono inseguite fra gli alti ufficiali della Casa Bianca e del Dipartimento di Stato. Il Consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton ha precisato in conferenza stampa che l’opzione militare deve essere scongiurata fino all’ultimo favorendo una pacifica transizione democratica. Su Twitter il consigliere di ferro di Trump ha invitato i dirigenti della Banca centrale venezuelana e delle altre banche del Paese così come i vertici militari ad accettare l’amnistia offerta da Guaidò, sulla scia del generale dell’Aeronautica Francisco Yanez, il primo pezzo da 90 dell’esercito che ha pubblicamente riconosciuto Guaidò come legittimo presidente, rassicurando che “il 90% delle forze armate” non supporta “il dittatore Maduro”.

Bolton ha poi preso di mira con un altro cinguettio l’invio da parte del governo Maduro di 100 tonnellate di aiuti umanitari a Cuba, recentemente colpita da un violento tornado: “Un nuovo esempio di come Maduro compra la sua protezione all’estero invece di aiutare il suo popolo, preferisce aiutare i suoi padroni di Cuba”.

Due giorni fa, uscito da un colloquio con il presidente Trump alla Casa Bianca, l’ambasciatore statunitense in Venezuela Carlos Vecchio, espulso assieme a tutto il corpo diplomatico dal Paese dopo il riconoscimento dell’amministrazione Usa di Guaidò come legittimo presidente, ha rassicurato che nel briefing allo Studio Ovale “non è stata discussa alcuna altra opzione” al di fuori di una campagna diplomatica internazionale per aumentare il supporto intorno alla deposizione di Maduro.

Maduro, che sui canali di comunicazione ufficiali ostenta sicurezza e si fa riprendere circondato da supporters, si trova davanti a un bivio. Il primo banco di prova tangibile sarà l’arrivo degli aiuti umanitari dagli Stati Uniti, cibo e medicinali di prima necessità, richiesti da Guaidò per tamponare l’emergenza umanitaria che vede più di 300.000 venezuelani a rischio decesso per malnutrizione o epidemie. Una mossa che ha grande valore politico. Guaidò spera infatti che l’esercito non si opponga al transito dei beni di prima necessità, e che quest’occasione segni una presa di distanze definitiva dei militari da Maduro.

L’inviato speciale Usa per il Venezuela Elliot Abrams ha prennunciato che i lavori sono in corso per la creazione di corridoi umanitari con il Brasile e il Venezuela, ma ha anche spiegato che senza la collaborazione di Maduro risulterà difficile far arrivare gli aiuti nel Paese. Il presidente chavista ha dal canto suo chiuso ogni spiraglio, perché a suo dire i corridoi umanitari sarebbero il preambolo di “un’invasione” degli Stati Uniti.

Il secondo banco di prova consiste invece in un ultimatum che si avvia alla scadenza. La ministra francese per gli Affari Europei Nathalie Loiseau ha ricordato a Maduro che questa sera le lancette scoccano per l’ultima volta prima che l’Eliseo, assieme ai governi di Spagna e Germania, riconosca ufficialmente Juan Guaidò come presidente del Venezuela. Le condizioni fissate erano chiare: indire nuove e limpide elezioni presidenziali. La proposta di una nuova tornata di elezioni politiche avazanzata da Maduro, ha chiosato la ministra, è “una farsa”.

All’ultimatum dei tre Paesi europei non si è accodata l’Italia. La distanza fra Lega e Cinque Stelle sul tema è talmente abissale che lo stesso Maduro, constatata la posizione terzista del governo gialloverde, ha pubblicamente ringraziato Roma per il supporto. Non è bastata l’immediata smentita del sottosegretario agli Esteri leghista Guglielmo Picchi, che ha rispedito al mittente i ringraziamenti twittando: “Caro Nicolas Maduro, lascia subito. Nessuna solidarietà da Roma, non ti riconosciamo come presidente. Elezioni subito”.

La presa di distanze infatti rimane personale. La Farnesina non si è ancora espressa, in attesa che i pentastellati, contrari al riconoscimento di Guaidò, trovino un’intesa con l’alleato leghista. Un ritardo che, a detta di buona parte della comunità diplomatica, costringerà l’Italia a pagare un prezzo con gli alleati internazionali e ha fatto sollevare le opposizioni.”Agli italiani, che non credo siano orgogliosi di essere ringraziati da un dittatore, si spieghi al più presto se la nostra politica estera la fa Di Battista o se c’è ancora un ministro degli Esteri” insorge la deputata Pd Lia Quartapelle. Le fanno eco Fabrizio Cicchitto (Ap) che parla di “un’autentica vergogna” e il governatore della Liguria Giovanni Toti (Fi): “mancano solo le divise bolivariane”.

MAduro

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