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“È una guerra, tipo Roma e Cartagine, non un confronto”. Spiega così Carlo Pelanda, coordinatore del dottorato di ricerca in geopolitica e geopolitica economica dell’Università Guglielmo Marconi di Roma, quello che sta succedendo tra Stati Uniti e Cina. Ieri, a New York, Donald Trump ha alzato nuovamente il livello della discussione: parlando durante la conferenza stampa conclusiva dell’Assemblea generale della Nazioni Unite, il presidente americano ha detto che l’amicizia col suo omologo cinese – Xi Jinping, con cui vantava un rapporto personale costruito per andare oltre alle questioni politiche – potrebbe essere finita.

Poi ha accusato la Cina di interferire con le dinamiche interne americane, a cominciare dalle prossime elezioni di metà mandato che si terranno a novembre. Di cosa parla Trump? Secondo Pelanda, non si tratta di qualcosa come quello visto nel caso della Russia con le presidenziali: “Pechino è un po’ disperata per via delle azioni americane sul commercio (la guerra dei dazi, ndr), che hanno prodotto un problema nella catena del valore cinese, e per questo sta cercando di contattare i propri riferimenti nel business americano”.

A questo si riferisce Trump quando parla di “interferenze”, spiega il professore: “Sta dicendo che la Cina sta cercando di condizionare le scelte della Casa Bianca dall’interno, c’è un tentativo di frenarlo, e lo sta facendo spingendo attori del business americano più influenzabili a dire qualcosa come ’i dazi costeranno più all’America che alla Cina’. Poi certo, c’è pure qualcuno che osserva e si posiziona su certi modi di vedere spontaneamente. E per questo, quanto dichiarato da Trump all’Onu diventa più un messaggio di dissuasione interno, verso i suoi“.

“Sarà una guerra duratura”, secondo Pelanda “perché l’obiettivo della Cina non è conquistare il mondo, ma è quello di venir considerata la potenza che fa da sfera di influenza più importante al livello globale, e la ragione di questa volontà è semplice: i cinesi vogliono guidare il G20”. “È in quel contesto che si gioca la prima Guerra Punica sino-americana, perché dal G20 puoi veicolare tutte le più importanti dinamiche del pianeta”.

Trump, aggiunge Pelanda, sa che questa è la strategia cinese ed è per questa ragione che, al di là di uscite dialettiche, ha modificato le policy commerciali: gli Stati Uniti da tempo cercano un riequilibrio con gli alleati, perché sanno di correre il rischio di essere sfruttati per primi dai loro partner. Trump su questo ha mosso da subito alcune dinamiche, partendo dal piano commerciale, ma adesso, fa notare il professore, sta cercando un’armonizzazione su certi squilibri e lo sta facendo per costruire un blocco di di paesi leali. È in quest’ottica che lavora con l’Ue, che non è considerata da Trump un elemento ostile, ma non è nemmeno amata (nei giorni scorsi una simulazione degli analisti dell’Eurotower ha spiegato che i dazi contro Pechino colpiranno molto di più l’economia americana che quella cinese, e queste sono quel genere di posizioni che l’attuale Casa Bianca detesta).

La questione del rapporto con gli alleati e del blocco armonico nei confronti della Cina (negli ultimi giorni, per esempio, Regno Unito e Giappone sono sembrati allinearsi sulla filosofia attraverso azioni e posizioni che piacciano agli americani, ma sono odiate dalla Cina, sul Mar Cinese), è perfetta per introdurre il tema-Italia. Chiediamo a Pelanda che ruolo sta giocando Roma, in un momento in cui almeno una delle componenti di governo, il Movimento 5 Stelle, sta spingendo molto l’acceleratore verso Pechino.

”È evidente che all’interno del governo ci siano persone condizionate dalla Cina, chi per ragioni pragmatiche che riguardano il piano economico-commerciale, chi per motivi culturali”. E come si sposa questo con la nuova “relazione speciale” che il premier Giuseppe Conte ha costruito con Trump, bastione invece della linea anti-cinese? “La posizione dell’America è semplice: loro ci stanno spiegando di essere in guerra con la Cina, e dunque capiscono che l’Italia non può interrompere certi rapporti per ragioni di interesse, ma ci chiedono di portarli avanti come piace a loro”.

“È davvero difficile pensare, mi sorprenderebbe sono onesto, che il governo italiano faccia qualcosa di diverso con la Cina da quello che ha concordato con gli Stati Uniti. D’altronde – continua Pelanda – la politica estera italiana è fatta così, nata da fatti tragici come l’incidente a Mattei negli anni Sessanta, quando la nostra diplomazia e la nostra politica erano molto raffinate: è in quel momento che abbiamo capito che per fare qualcosa nel mondo dobbiamo farlo con l’America”.

“Roma porta avanti relazioni con tutti, dalla Russia all’Iran e alla Cina, appunto, e gli americani non ci chiedono di rovinare i nostri interessi, ma semplicemente di essere franchi, chiari, trasparenti, e di parlarne prima con loro”, aggiunge il professore. “Quando vedo il governo italiano andare in Cina (nelle ultime settimane ci sono state tre missioni di massimo livello, quella del ministro dell’Economia, Giovanni Tria, quella del sottosegretario al Mise, Michele Geraci, e quella del ministro dello Sviluppo economico e vice premier, Luigi Di Maio. Ndr), penso che prima di partire abbiano concordato tutto con gli americani, perché altrimenti con queste condizioni internazionali se si esce da certi solchi è difficile restare al governo”.

Per Pelanda, “al di là di Tria, che comunque ha studiato in Cina e ha ottime relazioni, c’è un sottosegretario che è molto pro-Cina (si riferisce a Geraci, ndr) ed è lì che sarà interessante vedere quanto lui e il governo avranno capito come spingersi verso certi limiti ed equilibri: perché se ha capito bene, altrimenti temo che non sarà più sottosegretario”.

Nel nostro governo ci sono le capacità per mantenere in piedi lo schema di fiancheggiamento e partnership con gli Stati Uniti, mentre si dialoga pragmaticamente con la Cina? “È piuttosto simbolico che Trump abbia scelto di attaccare la Cina, volendo Conte seduto vicini a sé al gala Onu: sta a significare che l’amicizia tra Italia e Stati Uniti è forte, e che Washington non è per il momento in posizione ostile verso le dinamiche cinesi italiani. Ma è chiaro che si tratta di un’amicizia che può rompersi se Roma non ascolta gli Usa”. E poi, aggiunge Pelanda, “per gli americani, dovessero esserci problemi, il riferimento italiano è il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che con gli Stati Uniti ha rapporti straordinari: cercheranno lui dovessero crearsi situazioni spiacevoli, e sarà lui a risolverle all’interno”.

Il punto, semmai, riguarda la collocazione internazionale, spiega il professore: “L’Italia è l’unico paese che da tempo sperimenta questo equilibrio con l’America, sa come muoversi, ha esperienza. Altri non ne sono capaci, penso alla Germania per esempio, attaccata apertamente da Trump. Ci sarà da capire però quanto questa postura italiana si incastrerà con le dinamiche mosse da Berlino”.

 

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