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C’è una verità profonda ed evidente nella questione “sbarchi” che Papa Francesco ha ritenuto di evidenziare a noi tutti, cittadini europei come statunitensi durante la sua seconda giornata panamense: il problema non è quanti fuggiaschi possiamo accogliere, il problema è lo stigma sociale nei loro confronti, lo stigma verso l’Altro. Quel senso di fastidio profondo è passato sotto silenzio per via di una polemica astrusa tra presunti buonisti e cattivisiti e che invece riguarda un problema molto più grave, il cui vero nome è disprezzo.

E cosa ha detto Bergoglio? Ecco le sue parole: “Come Maria vogliamo essere Chiesa che favorisce una cultura capace di accogliere, proteggere, promuovere e integrare: (una cultura) che non stigmatizzi e meno ancora generalizzi con la più assurda e irresponsabile condanna identificando ogni migrante come portatore di male sociale.” Nel tempo dell’odio, per le masse, per le èlite, vere o presunte tali, la persona sparisce nei cosiddetti “flussi”, se non dietro il colore della pelle. Così emerge una ferita dalle enorme implicazioni. Se il discorso fosse “chi possiamo accogliere?”, “chi possiamo integrare?”, “di chi abbiamo bisogno?”, “come possiamo ripopolare antichi borghi e campagne ormai spopolate?”, “come distinguere soccorso, accoglienza, integrazione?”, qualcuno potrebbe chiedere, “si può parlare di tutto questo senza avere una strategia per l’Africa?”, “abbiamo fatto bene a disinteressarci della Siria e di molte altri disastri connessi?”, “cosa abbiamo investito sul buon vicinato?” Qui no, qui il discorso è diventato, evidenzia Bergoglio, la creazione in laboratorio di un male sociale che ci distrae da quelli reali.

È la stagione dell’odio, e parlando di costruttori di ponti e di costruttori di muri il papa non poteva che guardare con preoccupazione anche dentro il suo mondo, quello cattolico: “Mi preoccupa molto come la compassione abbia perso la sua centralità nella Chiesa. Anche gruppi cattolici l’hanno persa o la stanno perdendo, per non essere pessimisti. Anche nei mezzi di comunicazione cattolici la compassione non c’è. C’è lo scisma, la condanna, la cattiveria, l’accanimento, la sopravvalutazione di sé, la denuncia dell’eresia… Che non si perda nella nostra Chiesa la compassione”.

La religione come grande produttore di cultura riguarda tutti, anche i non credenti, quindi l’allarme su un cattolicesimo non compassionevole riguarda tutti. La perdita della compassione comporta la fine del mutuo soccorso, che vale quando soccorriamo perché varrà quando dovremo essere soccorsi. Ecco perché ieri, durante la Via Crucis, quanto ha detto Papa Francesco riguarda tutti i cittadini europei, non solo i credenti: parlando del Calvario lo ha definito “un cammino di sofferenza e solitudine che purtroppo, ancora oggi, ripropone i volti dei migranti costretti ad abbandonare la propria terra, delle donne spogliate della propria dignità, dei giovani privati di sogni e speranza, degli anziani scartati, dei bambini a cui si rifiuta un’infanzia e, non di rado, il diritto alla nascita: tutto nell’indifferenza soddisfatta e anestetizzante della nostra società”. Insomma, a laici e credenti Bergoglio ricorda che non esiste un umanesimo etnicista, parziale, può conoscere tappe, non confini. Al commovente cattolico che giorni addietro ricordava il diritto a non emigrare il Papa ricorda che quel diritto sacrosanto è troppo spesso travolto dalla costrizione, fisica o materiale, ad abbandonare la propria terra: è questo che impedisce di esercitare quel diritto, compromesso magari da politiche o cinismi di tanti.

La GMG che si sta celebrando a Panama è davvero mondiale: mondiali sono i temi, le emergenze, le sfide. E mondiale è la risposta radicalmente evangelica del Papa, che ricorda quali sono alternative all’umanesimo che o è integrale o non è umanesimo. E lo fa senza ammiccamenti a nessun potere politico, distinguendosi così da una vecchia tradizione, il costantinismo: lui ammicca solo alla forza, logica, del calare in Vangelo nella realtà odierna. Forse è qui il motivo di qualche rabbia confessionale, forse figlia della certezza che l’altare è meglio che stia tra i troni.

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